ciao nicola ti rispondo in due parole...."si fà per dire"
Che cos'è l'intelligenza? E come la si può definire? Un dono naturale? Un destino biologico legato al patrimonio genetico? O una facoltà che si arricchisce e si affina in rapporto con ambiente, esperienze e cultura? E' un'entità misurabile e quantificabile anche con un test? O il segreto della vita mentale che si nasconde nel cervello umano è ancora tutto da scoprire? Negli ultimi decenni neurobiologi, cognitivisti, neuropsicologi hanno cercato di dare risposte a queste domande. Nessuna è stata finora esauriente. Difficile, secondo la neuroscienza, spiegare tutti quei meccanismi molecolari che stanno alla base dei processi mentali. E ancor più arduo misurare con matematica esattezza una facoltà, l'intelligenza, che è fatta di tante capacità distinte e correlate fra loro: comprensione, pensiero, elaborazione, giudizio, soluzioni, scelte. Ma non la pensano così i due americani Charles Murray, sociologo, e Richard Herrnestein, psicologo, entrambi professori all'università di Harvard. Non hanno dubbi sull'intelligenza: di come sia tramandata per via genetica e di come le differenze, misurate con il quoziente intellettivo, o Q.I., siano solo conseguenza di una ineluttabilità biologica. E hanno affidato gli argomenti che li hanno portati a queste provocatorie conclusioni alle 850 pagine del loro libro "The bell curve" (ossia la curva a campana). Pubblicato negli Usa, il libro di Murray e Herrnstein ha suscitato un'ondata di polemiche. La tesi avanzata dai due autori in sintesi è questa: la società americana è sempre più divisa tra una élite intelligente di bianchi che monopolizza la posizione di potere e una sottoclasse di proletariato ritardato afflitto da grandi patologie sociali: disoccupazione, crimine, troppi figli. L'intelligenza, misurata con il Q.I., sarebbe il fattore principale della divisione americana in classi sociali. I fattori ambientali? Contano poco. I neri costituiscono la grande maggioranza della " sottoclasse " meno intelligente e questa spaccatura della società americana tra una élite di bianchi e i ghetti di neri sarebbe " inevitabile ". L'intelligenza, insomma, è un bene che si eredita e non si acquisisce. La controversia non è nuova. I tentativi di spiegare biologicamente le differenze sociali sono vecchi quanto l'uomo. Socrate, nei dialoghi di Platone, divideva i cittadini della repubblica in tre classi (governanti, ausiliari e artigiani) in base al materiale di cui erano fatti: i primi erano d'oro, i secondi d'argento e gli ultimi di ferro e bronzo. Dalla misurazione dei crani, come fecero nel secolo scorso Samuel Morton e Paul Broca, per quantificare l'intelligenza, si è poi passati ai test psicologici per stabilire con una singola entità numerica il Q.I. L'ultima ondata di polemiche risale al 1968 quando Arthur Jensen, professore californiano, in base al fatto che i neri ottenevano punteggi inferiori ( in media 15 punti in meno) rispetto ai bianchi nei test di intelligenza, affermò che questa differenza era genetica e quindi non era possibile colmarla. Ma davvero l'intelligenza è una " cosa " dentro la testa che si può misurare, indipendentemente dalla cultura in cui si è immersi e dal contesto sociale? L'intelligenza, per il sociologo francese Edgard Morin, esprime " la predisposizione a pensare, ad affrontare e risolvere i problemi in situazioni complesse. " Ogni epoca ed ogni civiltà dà a questa capacità un significato diverso. " Non posso usare gli stessi parametri se devo valutare uno studente universitario e un ragazzo indiano. Differenze culturali creano intelligenze diverse " avverte il neurologo milanese Hans Spinnler. L' intelligenza non è qualcosa di unico. Non è una capacità universale e assoluta, di cui Leonardo da Vinci è un raro esempio. Oggi è più giusto parlare di diverse forme di intelligenza che ciascuno di noi possiede in misura diversa. Una cosa è certa: è difficile trovare l'intelligente in tutto. Si può essere intelligente in un unico ambito e non in tutti. Bobby Fisher, per esempio, un campione di scacchi, aveva un'intelligenza superspecializzata e il suo Q.I. era nei limiti della norma. Ma se l'intelligenza è così vagamente definibile, come si fa a ridurla a un'entità astratta come il Q.I.? E come si può pensare che il Q.I. sia trasmesso col patrimonio genetico come occhi azzurri e capelli biondi? Il primo grande equivoco è quello di usare il test per il quoziente intellettivo per valutare le differenze tra due gruppi etnici diversi, come bianchi e neri. Tra gli esperti di psicologia il test ha un valore solo diagnostico, dice se vai a 40 o a 60 km orari, ma non svela niente del motore, cioè del cervello e delle sue reali possibilità. Per moltissimo tempo la debolezza mentale venne definita, in termini di Q.I., fra i limiti di 50 e 70. Al di sotto di 50 c'è l'imbecillità; al di sopra di 70 c'è l'intelligenza quasi normale. Mi sembra opportuno puntualizzare che il Q.I. non è l'intelligenza: è un modo per misurare la capacità di risolvere problemi scolastici. Di seguito elenco, come esempio, i risultati riportati da alcuni personaggi famosi, nel test per il Q.I. : La cantante Madonna (140) risulta più " intelligente " di John Kennedy (119) e del padrino mafioso Gotti (110), il giocatore di baseball di colore Reggie Jackson (160) batte lo scrittore Salinger (104). Il Q.I. più alto è di una donna : Marilyn Vos Savant. E' di 228 punti