LA LEGGENDA NATALIZIA DEL PIATTO TIPICO CATANZARESE: IL MORSELLO (u morseddhu).
Molti, ma molti anni, fa viveva a Catanzaro una giovane donna di nome Chicchina; era nata in un abituro arredato di miseria, ma era cresciuta bella quasi per vendicarsi della stessa povertà, che l’aveva mal nutrita per anni. Non aveva incontrato un principe azzurro, come la fortunata Cenerentola: aveva trovato un giovane marito, che soltanto saltuariamente lavorava da quando in città avevano ch...iuso i telai che producevano antichi damaschi. La giovane moglie lo aiutava allora a raccogliere centinaia di sacchi di foglie di gelso, che servivano per nutrire i bachi da seta che ogni famiglia allevava per il fabbisogno delle filande. Avevano trovato casa nel rione TUVULU, dal nome dell’antico burrone. L’abitazione era costituita da un solo vano a piano terra, con una sola finestra; in esso c’era un letto matrimoniale con sopra l’immagine della Madonna, messa lì ad alimentare la fede e la speranza della giovane coppia. Era quello il quartiere dei poveri, ma di quei poveri che vestivano e mangiavano da poveri, e i bambini avevano il pallore dei poveri e i piedi nudi, come tutti i poveri del mondo. Lì c’era, e c’è ancora, la fontana di TUVULEDDHU.
In quel punto sorgeva un agglomerato di pagliai, capanne a forma conica con scheletro di pali e intessitura di frasche e canne. D’estate erano utilizzati per la vendita dei fichidindia, resi freschi dall’acqua di quella sorgente; i Catanzaresi attraversavano la città e trovavano in quel luogo benefico sollievo alla calura. Poi un giorno il marito si allontanò da casa per trovare altrove lavoro; lo sposò, però, la morte che gli approntò un letto di terra che reggeva un verde cipresso.
Chicchina rimase vedova, vestita con neri stracci, come vestono i poveri; si ritrovò con due figli da sfamare con erbe spontanee, cicorie, cardi e borragini, e qualche tozzo di pane che la provvidenza le procurava, perché nelle preghiere aveva sempre richiesto quel pane quotidiano che Dio sa dare. Quel tugurio, senza il suo uomo, ora le offriva freddo e fame; e la fame, impietosa, aveva bussato alla sua porta in compagnia della morte.
In quell’abituro, nero come la notte, non entrava neppure un pallido raggio di sole, e sui vetri appannati dell’unica finestra la pioggia cadendo accompagnava la fine del giorno. Ora la sera per Chicchina era fredda come il ghiaccio, saziava la sua anima affamata col pane della preghiera; stava ad aspettare un passo che non tornava in quella casa, o il rumore di una porta che non si apriva. Sui muri, intanto, la muffa aveva dipinto volti di orchi e megere, bocche squartate dal continuo sbadigliare: immagini di terrore e smarrimento.
Mancava poco al Natale e Chicchina, come altre volte, fu chiamata a ripulire il grande cortile, dove venivano macellati gli animali da carne per i bisogni dei Catanzaresi. Portate via le bestie scuoiate e sezionate, rimanevano ammucchiate in un angolo le pelli, che un addetto recapitava alla conceria. Alla donna toccava ripulire lo spiazzo colorato di sangue; poi in una grande cesta raccoglieva le frattaglie scartate, quelle non idonee alla vendita: tutte le budella, dall’intestino crasso a quello cieco, fino al retto. Era sua incombenza trasportarle nella discarica della Fiumarella, ma quella volta con quel carico sostò sull’uscio della sua stamberga. Si liberò dal peso della cesta per bere un sorso d’acqua; si lasciò andare sul gradino di casa per riprendere fiato; diede uno sguardo ai ragazzi, che riposavano ancora e che, a sera, avrebbero seguito, per le strade della città, le zampogne che suonavano la novena di Natale.
Chicchina guardò la cesta colma di frattaglie: “Perché - si domandò - i ricchi mangiano la carne e rifiutano soltanto le parti di ciò che sta dentro le bestie? Forse per il contenuto che le budella ancora custodiscono, e devono essere sepolte nella discarica tra le immondizie…?”.
All’improvviso le si affacciò nel pensiero l’idea di pulire tutto quel cordame d’intestini: li svuotò del contenuto, li rivoltò come un calzino; poi li affogò in una tinozza ricolma d’acqua, lavando e nettando fin quando non furono veramente puliti. Tagliò il tutto a pezzetti e non scartò neppure la parte terminale, che era il tratto più grasso dell’intestino. Aggiunse qualche pezzetto di polmone e di milza, sfuggiti allo scarto dei beccai e recuperati nella cesta. Poi li trasferì nella tinozza con acqua nuova che sgorgava fresca dalla fontana di Tuvuleddhu. L’idea era quella di utilizzare quelle frattaglie, di cui nessuno si era mai servito, per il cenone di Natale con i ragazzi. Non avrebbe, però, confessato loro la natura di quel pasto: una profanazione alla solennità del Natale che nessuno avrebbe dovuto scoprire.
Quell’anno la Madonna aveva scelto di partorire a Catanzaro, ma non aveva trovato neppure una stalla dove fermarsi e regalare all’umanità il Redentore. C’era una spianata nella zona di Tuvuleddhu, dove sorgevano i pagliai utilizzati soltanto d’estate per la vendita dei fichidindia. Giuseppe condusse Maria in uno di essi: quello che gli apparve il meno esposto al vento e al freddo. Lì giunsero dalla campagna circostante un bue e un asinello, le creature che prima degli uomini avrebbero adorato il Messia.
Chicchina aveva posto sul fuoco un tegame con tutte quelle frattaglie, affogate nell’acqua con un po’ di sale. Aveva svuotato la brocca e ora, a notte fonda, era necessario riempirla. Si tirò sulle spalle il pesante mantello del marito e si sentì protetta per raggiungere la vicina fontana. Poi sulla via del ritorno, notò una luce accecante in uno dei pagliai. Si avvicinò curiosa e rimase estasiata: c’era la Madonna nell’atto di porre nelle braccia di Giuseppe il bimbo appena nato. Chicchina in un baleno si levò il mantello e coprì quella creatura ancora nuda; la Madonna le sorrise, mentre sul pagliaio una schiera d’angeli cantava “Gloria a Dio nell’alto dei cieli”.
Poi aiutò la Madonna a sdraiarsi e la sua mano sfiorò dolcemente il volto di Dio fatto uomo. Avvertì la stessa felicità dell’attimo in cui divenne madre: ora quel bimbo, coperto col suo mantello, le apparteneva e tante volte lo aveva invocato nella sua disperata solitudine. Maria glielo affidò per una ninna nanna; una di quelle ninne nanne che le mamme calabresi sanno cantare dolcemente ai loro figli. Chicchina timorosa si strinse al petto la divina creatura e cominciò a cantare:
“Bambinuzzu, bambineddhu /
chi nescisti accussì beddhu, /
e a mia non dira no, /
fai la ninna, ninna oh!”.
Ora la Madonna e Giuseppe guardavano felici la povera Chicchina, che cantava la ninna nanna al più povero dei re. Cominciarono ad arrivare pastori da ogni contrada: uno portava broccoli, un altro una ricotta, un altro il pesce, un mugnaio la farina, una nobile signora uno scialle di seta e poi tanta frutta, tante focacce e panni per il divino infante. C’era pure l’incantato del presepe, immobile come una statua, la bocca spalancata e le braccia aperte dinanzi al Redentore.
Dalla Porta Marina giunsero pure i Re Magi: tutti quei pastori erano obbligati a transitare per la via dove sorgeva il tugurio di Chicchina. Una schiera d’angeli curiosi entrò per visitare quell’abituro; trovarono i bimbi addormentati e il tegame sul fuoco: un angelo cuoco comprese che a quelle frattaglie mancava qualcosa: versò salsa di pomodoro, poi un’aggiunta di origano e una manciata di peperoncino. Rimestò il tutto e fattone un assaggio sentenziò ch’era un ottimo pasto.
Le campane di mezzanotte suonarono la nascita del Redentore e Chicchina si svegliò dal lungo sonno, che l’aveva vista partecipe di quella nascita. Credette di aver sognato, ma nella squallida stamberga trovò tutti quei doni che i pastori avevano deposto nel pagliaio di Tuvuleddhu: si ritrovò sulle spalle lo scialle di seta che la nobile signora aveva portato alla Madonna; sulla tavola imbandita c’era di tutto; in bella evidenza anche le focacce, che servivano per gustare quell’insignificante piatto di frattaglie che gli angeli avevano trasformato in cibo squisito, atto a solleticare la gola e, in futuro, a soddisfare la ghiottoneria dei Catanzaresi!
Chicchina svegliò i bambini e mangiarono quella pietanza; sul loro volto c’era il sorriso di Gesù bambino, che la povera vedova aveva cullato nel pagliaio di Tuvuleddhu.