vorrei condividere con voi questi "ricordi d'infanzia", scaturiti di getto quando oggi, scartabellando nelle mie scartoffie, ho trovato una vecchia foto di me bambina (avrò avuto un sei-sette anni) in vacanza nella casa di campagna dei nonni, vicino a Bergamo.
scusate la lunghezza, ma vorrei farvi "assaporare" appieno quanto ho nell'anima
Infanzia. Età mitica per svegliarsi la mattina nella casa di campagna dei nonni, la stufa ancora spenta, sul pavimento della cucina schegge di legno e cenere grigiastra. Là fuori il sole brilla nell’aria tersa, i prati sono ancora verde smeraldo.
Odore di caffè ed il bacio del risveglio del nonno, fragrante di dopobarba alla lavanda e privo dell’odoire farinoso che caratterizza molti anziani.
Cecchina che portava le uova al nonno – quattr’of, mil franc, sciur Rovelli, sono ancora calde – una figura mitica della mia infanzia, una contadina enorme e muscolosa, un fazzolettone perennemente intorno alla testa, una crocchia severa di capelli grigio ferro, occhi azzurri fra le rughe del viso, 8un vestito blu a fiorellini, grembiule beige, mani rovinate dal lavoro nei campi, mani che mi incuriosivano da morire, abituata alle mani lisce, curate e piccole prerogativa di tutta la mia famiglia. Donna che non ricordo di avere mai visto entrare in casa nostra nonostante i ripetuti inviti perché timorosa di disturbare. Lunghe conversazioni e confidenze con mia nonna, una al di qua ed una al di là del sentierino che divideva le rispettive abitazioni: ognuna mi sembrava allo stesso tempo regina e prigioniera del proprio mondo e della propria casa. Cecchina che una volta uccise il tasso che le divorava il grano, una bestia lunga più di un metro, nera e bianca, e venne a mostrarcelo. Cecchina che si ostinava a darmi del lei – a me bimbetta – nel suo italiano sgarruppato e buono tipico dei contadini delle mie parti.
L’arrivo del gattone randagio che si trasferiva da noi all’inizio della stagione estiva, per poi eclissarsi a settembre e ricomparire quasi magicamente ai primi di maggio dell’anno successivo: un soriano enorme e sornione, il pelo ispido e folto, un graffio sul naso arancione ad indicare una recente zuffa. Occhi gialli e picareschi.
Odore di erba tagliata di fresco. Grilli che friniscono e saltano nei prati sotto la luce di mezzogiorno. Il pozzo al cui interno cresceva del muschio, e dentro il quale gettavo monetine. Gallinelle che razzolano beate beccando minuscoli frammenti – che sarà mai una pagliuzza, un chicco, una briciola?
Il canto di Mariù, capelli candidi raccolti a crocchia, un paio di occhi blu e malandrini, mentre pulisce il pavimento della sua casa odorosa di sapone di Marsiglia. La donna che mi ha fatto prendere in mano il mio primo coniglietto, pelo marrone, caldissimo e morbido. E il leggero raspare di quelle unghiette appuntite sul palmo della mano, come minuscola carta vetrata.
Il sapore dei piselli crudi rubati nell’orto, il ricordo di mezzi gusci di uova messi in cima ad un bastoncino vicino all’insalata per tenere lontano le lumache. Mucchietti di terra smossa dalle talpe. Il bosco di castagni in lontananza, su una collinetta, posto magico ed irraggiungibile. Il melo con i rami a forma di cuore, che produceva verdi frutti, piccoli ed asprigni, che legavano i denti, unici.
Vicino alle poche stalle odore di strame, di caldo, di fieno, muggiti quasi brontolati nella canicola di agosto.
Paolino che torna dalla sua casa colonica fischiettando, con una carriola piena di patate enormi, gialle, lucide, il passo spedito nonostante il sentierino di acciottolato. E le pietre di questo viottolo: ovali, tonde, allungate, lisce, a forma di cuore, con angoli aspri, che si riempivano di minuscoli insetti e spandevano un profumo dolciastro quando la pianta di prugno i cui rami pendevano oltre la proprietà lasciava cadere al su0olo i suoi frutti violacei.
Le ortiche crescevano in alcuni punti della stradina: ciuffi larghi e bassi, con fiori bianchi e piccoli. Da bambina associavo l’idea dei cespi di ortiche alla figura di una grassa orchessa bonaria intenta a rimestare qualcosa in un calderone.
E poi le passeggiate solitarie sullo stradone asfaltato dietro casa, il monte Alben verdissimo d’estate, con un cappuccio di nuvole verso settembre, da cui spirava sempre una brezza fresca. Sbirciavo nel giardino della signora Felicita: cespugli incredibili di ortensie lilla, rosa, bianche e blu, una lumaca con il suo bravo guscio appoggiata alla balaustra, un gatto rosso e panciuto sdraiato nella penombra dei fiori.
Un sentierino partiva dallo stradone e si dirigeva verso il bosco, attraversando prati in cui seccava il fieno. Contadini con gerle enormi traboccanti di fieno odoroso, il cui effluvio inebriava. Facevo qualche passo incerto sul viottolo, toccavo con mano insicura le barbe delle pannocchie di grano. La paura di essere scoperta.
Con la mamma spesso andavamo al poggio. Camminavamo verso le cinque di pomeriggio – la calura andava calmandosi – sullo stradone. Strane piantine le cui foglie erano ricoperte da una peluria bianca che si toglieva sfreganola, crescevano ai lati della strada. Stridore di grilli. Caldo asciutto. Giungevamo alla fine ad una spianata su cui cresceva erba sottile e folta. Minuscoli cardi secchi e spinosi. Crochi lilla e bianchi. Dai due pini colava sempre una resina ambrata e profumata, che si incollava alle mani ed ai vestiti. La betulla con le piccole foglie. Una pelle di serpente rotta e seccata dal sole. Farfalle nere a puntini rossi. Un grande capanno di caccia, abbandonato da anni. Ci sedevamo nel prato ed osservavamo Caminiere, così piccolo visto da lì. Odore di erba, di legna bruciata, di ciclamini, di resina. La mia prima pianta di sambuco. Le rose selvatiche. Le more, le felci che crescevano sui muretti di contenimento. Il caldo del sole sulla pelle.
La sera. La mamma che mi mette il golfino sulle spalle. Il telegiornale con i nonni. Un ultimo, breve giro in giardino, con un po’ di inquietudine e paura – sembra così diverso la sera! - i ragni che ritirano le loro ragnatele, i grilli che iniziano il loro cri-cri notturno. Odore di fumo dei camini accesi. Qualche stella nel cielo indaco.
Il nonno chiude con i lucchetti i cancelli dei due giardini, e poi appende le chiavi dietro la porta; il portachiavi di pelle marrone, con una finestrella su cui c’è scritto con la sua grafia di altri tempi “Cancelli”.
Si chiude il portone di legno. Buonanotte.
Scale ripide di legno che scricchiola. Il fresco delle lenzuola di cotone sul lettone alto di noce scuro. Mi addormento sentendo e sognando i grilli.
scusate la lunghezza, ma vorrei farvi "assaporare" appieno quanto ho nell'anima
Infanzia. Età mitica per svegliarsi la mattina nella casa di campagna dei nonni, la stufa ancora spenta, sul pavimento della cucina schegge di legno e cenere grigiastra. Là fuori il sole brilla nell’aria tersa, i prati sono ancora verde smeraldo.
Odore di caffè ed il bacio del risveglio del nonno, fragrante di dopobarba alla lavanda e privo dell’odoire farinoso che caratterizza molti anziani.
Cecchina che portava le uova al nonno – quattr’of, mil franc, sciur Rovelli, sono ancora calde – una figura mitica della mia infanzia, una contadina enorme e muscolosa, un fazzolettone perennemente intorno alla testa, una crocchia severa di capelli grigio ferro, occhi azzurri fra le rughe del viso, 8un vestito blu a fiorellini, grembiule beige, mani rovinate dal lavoro nei campi, mani che mi incuriosivano da morire, abituata alle mani lisce, curate e piccole prerogativa di tutta la mia famiglia. Donna che non ricordo di avere mai visto entrare in casa nostra nonostante i ripetuti inviti perché timorosa di disturbare. Lunghe conversazioni e confidenze con mia nonna, una al di qua ed una al di là del sentierino che divideva le rispettive abitazioni: ognuna mi sembrava allo stesso tempo regina e prigioniera del proprio mondo e della propria casa. Cecchina che una volta uccise il tasso che le divorava il grano, una bestia lunga più di un metro, nera e bianca, e venne a mostrarcelo. Cecchina che si ostinava a darmi del lei – a me bimbetta – nel suo italiano sgarruppato e buono tipico dei contadini delle mie parti.
L’arrivo del gattone randagio che si trasferiva da noi all’inizio della stagione estiva, per poi eclissarsi a settembre e ricomparire quasi magicamente ai primi di maggio dell’anno successivo: un soriano enorme e sornione, il pelo ispido e folto, un graffio sul naso arancione ad indicare una recente zuffa. Occhi gialli e picareschi.
Odore di erba tagliata di fresco. Grilli che friniscono e saltano nei prati sotto la luce di mezzogiorno. Il pozzo al cui interno cresceva del muschio, e dentro il quale gettavo monetine. Gallinelle che razzolano beate beccando minuscoli frammenti – che sarà mai una pagliuzza, un chicco, una briciola?
Il canto di Mariù, capelli candidi raccolti a crocchia, un paio di occhi blu e malandrini, mentre pulisce il pavimento della sua casa odorosa di sapone di Marsiglia. La donna che mi ha fatto prendere in mano il mio primo coniglietto, pelo marrone, caldissimo e morbido. E il leggero raspare di quelle unghiette appuntite sul palmo della mano, come minuscola carta vetrata.
Il sapore dei piselli crudi rubati nell’orto, il ricordo di mezzi gusci di uova messi in cima ad un bastoncino vicino all’insalata per tenere lontano le lumache. Mucchietti di terra smossa dalle talpe. Il bosco di castagni in lontananza, su una collinetta, posto magico ed irraggiungibile. Il melo con i rami a forma di cuore, che produceva verdi frutti, piccoli ed asprigni, che legavano i denti, unici.
Vicino alle poche stalle odore di strame, di caldo, di fieno, muggiti quasi brontolati nella canicola di agosto.
Paolino che torna dalla sua casa colonica fischiettando, con una carriola piena di patate enormi, gialle, lucide, il passo spedito nonostante il sentierino di acciottolato. E le pietre di questo viottolo: ovali, tonde, allungate, lisce, a forma di cuore, con angoli aspri, che si riempivano di minuscoli insetti e spandevano un profumo dolciastro quando la pianta di prugno i cui rami pendevano oltre la proprietà lasciava cadere al su0olo i suoi frutti violacei.
Le ortiche crescevano in alcuni punti della stradina: ciuffi larghi e bassi, con fiori bianchi e piccoli. Da bambina associavo l’idea dei cespi di ortiche alla figura di una grassa orchessa bonaria intenta a rimestare qualcosa in un calderone.
E poi le passeggiate solitarie sullo stradone asfaltato dietro casa, il monte Alben verdissimo d’estate, con un cappuccio di nuvole verso settembre, da cui spirava sempre una brezza fresca. Sbirciavo nel giardino della signora Felicita: cespugli incredibili di ortensie lilla, rosa, bianche e blu, una lumaca con il suo bravo guscio appoggiata alla balaustra, un gatto rosso e panciuto sdraiato nella penombra dei fiori.
Un sentierino partiva dallo stradone e si dirigeva verso il bosco, attraversando prati in cui seccava il fieno. Contadini con gerle enormi traboccanti di fieno odoroso, il cui effluvio inebriava. Facevo qualche passo incerto sul viottolo, toccavo con mano insicura le barbe delle pannocchie di grano. La paura di essere scoperta.
Con la mamma spesso andavamo al poggio. Camminavamo verso le cinque di pomeriggio – la calura andava calmandosi – sullo stradone. Strane piantine le cui foglie erano ricoperte da una peluria bianca che si toglieva sfreganola, crescevano ai lati della strada. Stridore di grilli. Caldo asciutto. Giungevamo alla fine ad una spianata su cui cresceva erba sottile e folta. Minuscoli cardi secchi e spinosi. Crochi lilla e bianchi. Dai due pini colava sempre una resina ambrata e profumata, che si incollava alle mani ed ai vestiti. La betulla con le piccole foglie. Una pelle di serpente rotta e seccata dal sole. Farfalle nere a puntini rossi. Un grande capanno di caccia, abbandonato da anni. Ci sedevamo nel prato ed osservavamo Caminiere, così piccolo visto da lì. Odore di erba, di legna bruciata, di ciclamini, di resina. La mia prima pianta di sambuco. Le rose selvatiche. Le more, le felci che crescevano sui muretti di contenimento. Il caldo del sole sulla pelle.
La sera. La mamma che mi mette il golfino sulle spalle. Il telegiornale con i nonni. Un ultimo, breve giro in giardino, con un po’ di inquietudine e paura – sembra così diverso la sera! - i ragni che ritirano le loro ragnatele, i grilli che iniziano il loro cri-cri notturno. Odore di fumo dei camini accesi. Qualche stella nel cielo indaco.
Il nonno chiude con i lucchetti i cancelli dei due giardini, e poi appende le chiavi dietro la porta; il portachiavi di pelle marrone, con una finestrella su cui c’è scritto con la sua grafia di altri tempi “Cancelli”.
Si chiude il portone di legno. Buonanotte.
Scale ripide di legno che scricchiola. Il fresco delle lenzuola di cotone sul lettone alto di noce scuro. Mi addormento sentendo e sognando i grilli.