compiti a casa: un problema vecchio come la scuola.
Qual è la misura giusta per pesare l’aiuto che un genitore deve, può, vuole dare al proprio figlio nello studio a casa, senza che vi sia diseducazione? Quanta collaborazione è giusta e auspicabile e quanta invece è “troppa” e deleteria?
I compiti a casa restano uno degli argomenti più discussi tra i genitori e meno apprezzati tra gli studenti di qualsiasi ordine e grado. Molte cose sono cambiate nella scuola, ma per qualche motivo nessuno ancora è riuscito a conferire ai compiti a casa una connotazione che sia accettabile soprattutto ai ragazzi, o ad una buona parte di essi. Erano e rimangono una “rottura”, e questo – spesso – succede fin dai primi anni della scuola primaria.
E’ innegabile che l’esecuzione dei compiti a casa è l’aspetto della scuola che maggiormente avvicina i ruoli di insegnanti, alunni e genitori. Sono tutti coinvolti e - paradossalmente - con finalità differenti, laddove l’obiettivo dovrebbe essere comune: i primi li assegnano per consolidare lo studio in classe e li ritengono indispensabili, i secondi prevalentemente li detestano e li svolgono per non rischiare una nota, i terzi brancolano nel buio cercando di ricavarsi a tutti i costi un ruolo, incapaci però di starne fuori e pronti a farsi ulteriormente confondere dalle richieste da parte degli insegnanti che trascurano di dare precisa connotazione al tipo di aiuto richiesto; così ognuno interpreta a suo modo, i genitori si arrogano il diritto di interferire pesantemente, minando anche seriamente la socialità familiare. Si sentono investiti di questo impegno e lo scenario che sovente fa da contorno ai compiti a casa non è affatto da sottovalutare: spesso fonte di conflitto tra genitori e figli, tra genitore e genitore, di stravolgimento degli equilibri familiari, causa di stress su entrambi i fronti. Qualche esperto ancora sostiene che i compiti aiutino la relazione genitori-figli, ma la voce di tanti genitori dice che “è una lotta continua”.
Le discussioni che periodicamente emergono sul tema vedono le opinioni dei genitori spaccarsi regolarmente in due. Da una parte quelli pronti a passare le domeniche pomeriggio sui libri insieme ai figli, a costo di rinunciare alla gita fuori porta. Molti lo fanno con piacere, il compito a casa diventa davvero un motivo di condivisione, di confronto, di unità familiare: tutti attorno al tavolo, genitori e figli, pronti a scambiarsi opinioni, a fare prove e controprove di moltiplicazioni e divisioni, a ripassare olltugheder la dinastia merovingia. Sono i genitori dei ragazzi che – tutto sommato – i compiti li fanno volentieri e stare accanto a loro è – appunto - un piacere.
Dalla stessa parte ma con risultati ben differenti quelli che ormai meditano di arruolare feroci cani da guardia da posizionare accanto alle scrivanie, si sentono in dovere di controllare anche il colore della penna usata e tengono a portata di mano il decalogo dei castighi da infliggere in caso di mancato svolgimento, castighi che vanno dallo spegnimento della tv alla sottrazione del cellulare a seconda dell’età e per periodi proporzionali al compito non svolto: per una mancata lettura, niente tv per due giorni; per una pagina bianca sul libro di matematica, si stacca l’antenna. Niente cellulare per una settimana per una insufficienza in educazione fisica, ricarica negata a oltranza per un tema mal svolto. Sono gli stessi genitori però ad ammettere che questi metodi a poco o a nulla servono, o portano comunque benefici brevi. Quando un ragazzo non vuole fare i compiti, spesso, non c’è ricatto che tenga. Soprattutto, sull’onda dell’emotività, molti genitori sono indotti a formulare minacce inattuabili, raggiungendo il paradosso del pretendere dai propri figli un impegno preciso brattandolo con una promessa che non manterranno.
Per entrambe queste categorie di genitori, comunque, la parola d’ordine pare essere “mai a scuola senza aver fatto i compiti”. Perché è oltraggioso, perché è inaccettabile. Tuttavia, i primi nemmeno ci devono pensare, sono i figli stessi a non permettersi di andare a scuola senza. Per i secondi la cosa si fa un tantino più spessa, ma non ammettono l’ipotesi di lasciare che i figli si assumano la responsabilità della loro negligenza, e a costo di passare le notti a ripassare trigonometria (i genitori) i figli avranno i compiti fatti (dai genitori).
Una visione diametralmente opposta la propongono invece i sostenitori del lasciar fare. Per loro la presenza mal diretta dei genitori impedisce lo sviluppo dell’autonomia e della responsabilità e preclude ai ragazzi l’occasione di lavorare finalmente con tempi propri, senza l’assillo dell’insegnante che fiata dietro al collo. Lavorare da soli inoltre consente di sbagliare e conseguentemente di approfondire, stimola l’uso della propria testa e la capacità di cercare soluzioni.
Questi genitori sono i sostenitori del motto “i compiti sono dei figli, non dei genitori”. E’ loro opinione comune che i ragazzi che fin dai primi anni di scuola vengono abituati a lavorare autonomamente, imparano più velocemente ad organizzare il proprio tempo e a darsi delle regole, a vantaggio dello studio futuro. Il genitore che interagisse in questo importantissimo processo di crescita manderebbe inconsciamente un messaggio controproducente ai ragazzi: per lavorare bene hai bisogno di qualcuno che ti controlli, che ti indirizzi, che ti gestisca. I ragazzi – a detta di questi genitori – hanno il diritto di sbagliare da soli, e affrontare le conseguenze del non aver fatto i compiti è visto come motivo di crescita e di stimolo.
Ma un genitore davvero non deve fare nulla? E stare a guardare se il proprio figliolo colleziona una serie di insufficienze, pur – a volte - lavorando?
L’interesse da parte della famiglia negli studi dei figli contribuisce senza dubbio al successo scolastico, ma è importante imparare a dosare questo impegno e a connotarlo in una realtà educativa che sia producente. E’ assolutamente inutile prevedere insuccessi professionali futuri o promettere ricompense: niente di questo farà apprezzare la scuola e lo studio qui e ora.
E’ necessaria soprattutto una distinzione: un conto è sostituirsi ai figli nello svolgimento dei compiti, un conto è essere presenti come educatori. Riprendere con i figli la lezione di geografia e infilare nozioni nelle loro teste esattamente come farebbe il prof. o la maestra (con l’aggravante di non essere né uno né l’altra) è come farcire una torta a cui magari manca lo zucchero nell’impasto. Al contrario, limitarsi ad aiutarli con pazienza e costanza a trovare strategie per organizzare il tempo, per individuare un metodo di studio, per riconoscere gli obiettivi, significa curare gli ingredienti. La torta poi - pare - viene da sé.
Sembra banale, ma immaginate un bambino che durante una passeggiata abbia l’opportunità di mettere in pratica quanto ha studiato a scuola, indicando a tutti la direzione in cui stanno andando. Noi diciamo “potremmo esserci persi, chissà da che parte stiamo andando” e lui o lei dice “Guarda il muschio sugli alberi, è chiaro che stiamo andando verso nord” e noi aggiungiamo “Menomale che tu sai queste cose, ci hai davvero salvato la giornata!”. Questo significa aiutare un bambino a dare un senso allo studio, alla conoscenza. Meglio di cento moltiplicazioni. Concedere ad un ragazzo di intervenire in una discussione tra adulti dimostrando una conoscenza appresa a scuola è un’occasione preziosa per valorizzare il suo impegno, più di cento ripetizioni della lezione di storia.
In conclusione, per partecipare attivamente alla vita scolastica dei figli può essere sufficiente creare un ambiente favorevole allo studio, aiutare i ragazzi a stabilire delle abitudini nei tempi e nei metodi, condurli alla convinzione che la conoscenza e il sapere sono importanti, attraverso il quotidiano vivere e non con tante belle parole, incomprensibili ai bambini ed inavvicinabili alla loro realtà. Del resto, il bambino si aspetta il nostro interesse, apprezza il fatto di vedere che ci stanno a cuore i suoi progressi. Evitare di interferire non significa quindi votarsi al mutismo o sparire nel momento dei compiti: il genitore-educatore è pronto a dare suggerimenti se richiesti, indicazioni, o addirittura aiutare il bambino a produrre domande di chiarimento da porre all’insegnante. Il genitore in sostanza si rende disponibile e si dimostra interessato, abbandonando però velleità da docente.
Soprattutto sarebbe opportuno evitare di star loro accanto quando noi per primi non sappiamo mantenere una relazione serena durante lo svolgimento dei compiti, se non siamo capaci di valorizzarli e stimolarli, se non riusciamo a dar loro fiducia nelle loro capacità. Se non sappiamo resistere alla tentazione di fare critiche e paragoni (con noi alla loro età, con i fratelli maggiori, con i compagni più dotati), se non siamo più che dotati di autocontrollo, e se non ci mettiamo in testa che la Santa Inquisizione ha fatto il suo tempo, meglio lasciare veramente che tutto resti in mano loro. Almeno non li avremmo aiutati a detestare definitivamente i compiti a casa.
P.S.
Io stamani ho mandato a scuola mia figlia senza aver svolto il compito d'inglese.
3a media - professoressa nuova d'inglese - i due anni precedenti non hanno fatto neache un terzo del programma.
Il prof. era sempre assente o quando era presente se ne infischiava! :martello2
Ieri mattina viene assegnato questo compito:
Scrivete un e-mail ad un amico inglese descrivete i ristoranti italiani, e la cucina italiana.
Allora, l'insegnante ha valutato il livello di conoscenza dell'inglese, di questi 25 ragazzini?
Mi sono proprio inc...ta!
Ho chiesto a mia figlia della lezione del giorno, di cosa aveva parlato, cosa aveva spiegato .
Risposta: Ci ha parlato di come ha conosciuto il suo ragazzo a Londra!
Sono esterefatta! Oggi vado dal Preside!
Qual è la misura giusta per pesare l’aiuto che un genitore deve, può, vuole dare al proprio figlio nello studio a casa, senza che vi sia diseducazione? Quanta collaborazione è giusta e auspicabile e quanta invece è “troppa” e deleteria?
I compiti a casa restano uno degli argomenti più discussi tra i genitori e meno apprezzati tra gli studenti di qualsiasi ordine e grado. Molte cose sono cambiate nella scuola, ma per qualche motivo nessuno ancora è riuscito a conferire ai compiti a casa una connotazione che sia accettabile soprattutto ai ragazzi, o ad una buona parte di essi. Erano e rimangono una “rottura”, e questo – spesso – succede fin dai primi anni della scuola primaria.
E’ innegabile che l’esecuzione dei compiti a casa è l’aspetto della scuola che maggiormente avvicina i ruoli di insegnanti, alunni e genitori. Sono tutti coinvolti e - paradossalmente - con finalità differenti, laddove l’obiettivo dovrebbe essere comune: i primi li assegnano per consolidare lo studio in classe e li ritengono indispensabili, i secondi prevalentemente li detestano e li svolgono per non rischiare una nota, i terzi brancolano nel buio cercando di ricavarsi a tutti i costi un ruolo, incapaci però di starne fuori e pronti a farsi ulteriormente confondere dalle richieste da parte degli insegnanti che trascurano di dare precisa connotazione al tipo di aiuto richiesto; così ognuno interpreta a suo modo, i genitori si arrogano il diritto di interferire pesantemente, minando anche seriamente la socialità familiare. Si sentono investiti di questo impegno e lo scenario che sovente fa da contorno ai compiti a casa non è affatto da sottovalutare: spesso fonte di conflitto tra genitori e figli, tra genitore e genitore, di stravolgimento degli equilibri familiari, causa di stress su entrambi i fronti. Qualche esperto ancora sostiene che i compiti aiutino la relazione genitori-figli, ma la voce di tanti genitori dice che “è una lotta continua”.
Le discussioni che periodicamente emergono sul tema vedono le opinioni dei genitori spaccarsi regolarmente in due. Da una parte quelli pronti a passare le domeniche pomeriggio sui libri insieme ai figli, a costo di rinunciare alla gita fuori porta. Molti lo fanno con piacere, il compito a casa diventa davvero un motivo di condivisione, di confronto, di unità familiare: tutti attorno al tavolo, genitori e figli, pronti a scambiarsi opinioni, a fare prove e controprove di moltiplicazioni e divisioni, a ripassare olltugheder la dinastia merovingia. Sono i genitori dei ragazzi che – tutto sommato – i compiti li fanno volentieri e stare accanto a loro è – appunto - un piacere.
Dalla stessa parte ma con risultati ben differenti quelli che ormai meditano di arruolare feroci cani da guardia da posizionare accanto alle scrivanie, si sentono in dovere di controllare anche il colore della penna usata e tengono a portata di mano il decalogo dei castighi da infliggere in caso di mancato svolgimento, castighi che vanno dallo spegnimento della tv alla sottrazione del cellulare a seconda dell’età e per periodi proporzionali al compito non svolto: per una mancata lettura, niente tv per due giorni; per una pagina bianca sul libro di matematica, si stacca l’antenna. Niente cellulare per una settimana per una insufficienza in educazione fisica, ricarica negata a oltranza per un tema mal svolto. Sono gli stessi genitori però ad ammettere che questi metodi a poco o a nulla servono, o portano comunque benefici brevi. Quando un ragazzo non vuole fare i compiti, spesso, non c’è ricatto che tenga. Soprattutto, sull’onda dell’emotività, molti genitori sono indotti a formulare minacce inattuabili, raggiungendo il paradosso del pretendere dai propri figli un impegno preciso brattandolo con una promessa che non manterranno.
Per entrambe queste categorie di genitori, comunque, la parola d’ordine pare essere “mai a scuola senza aver fatto i compiti”. Perché è oltraggioso, perché è inaccettabile. Tuttavia, i primi nemmeno ci devono pensare, sono i figli stessi a non permettersi di andare a scuola senza. Per i secondi la cosa si fa un tantino più spessa, ma non ammettono l’ipotesi di lasciare che i figli si assumano la responsabilità della loro negligenza, e a costo di passare le notti a ripassare trigonometria (i genitori) i figli avranno i compiti fatti (dai genitori).
Una visione diametralmente opposta la propongono invece i sostenitori del lasciar fare. Per loro la presenza mal diretta dei genitori impedisce lo sviluppo dell’autonomia e della responsabilità e preclude ai ragazzi l’occasione di lavorare finalmente con tempi propri, senza l’assillo dell’insegnante che fiata dietro al collo. Lavorare da soli inoltre consente di sbagliare e conseguentemente di approfondire, stimola l’uso della propria testa e la capacità di cercare soluzioni.
Questi genitori sono i sostenitori del motto “i compiti sono dei figli, non dei genitori”. E’ loro opinione comune che i ragazzi che fin dai primi anni di scuola vengono abituati a lavorare autonomamente, imparano più velocemente ad organizzare il proprio tempo e a darsi delle regole, a vantaggio dello studio futuro. Il genitore che interagisse in questo importantissimo processo di crescita manderebbe inconsciamente un messaggio controproducente ai ragazzi: per lavorare bene hai bisogno di qualcuno che ti controlli, che ti indirizzi, che ti gestisca. I ragazzi – a detta di questi genitori – hanno il diritto di sbagliare da soli, e affrontare le conseguenze del non aver fatto i compiti è visto come motivo di crescita e di stimolo.
Ma un genitore davvero non deve fare nulla? E stare a guardare se il proprio figliolo colleziona una serie di insufficienze, pur – a volte - lavorando?
L’interesse da parte della famiglia negli studi dei figli contribuisce senza dubbio al successo scolastico, ma è importante imparare a dosare questo impegno e a connotarlo in una realtà educativa che sia producente. E’ assolutamente inutile prevedere insuccessi professionali futuri o promettere ricompense: niente di questo farà apprezzare la scuola e lo studio qui e ora.
E’ necessaria soprattutto una distinzione: un conto è sostituirsi ai figli nello svolgimento dei compiti, un conto è essere presenti come educatori. Riprendere con i figli la lezione di geografia e infilare nozioni nelle loro teste esattamente come farebbe il prof. o la maestra (con l’aggravante di non essere né uno né l’altra) è come farcire una torta a cui magari manca lo zucchero nell’impasto. Al contrario, limitarsi ad aiutarli con pazienza e costanza a trovare strategie per organizzare il tempo, per individuare un metodo di studio, per riconoscere gli obiettivi, significa curare gli ingredienti. La torta poi - pare - viene da sé.
Sembra banale, ma immaginate un bambino che durante una passeggiata abbia l’opportunità di mettere in pratica quanto ha studiato a scuola, indicando a tutti la direzione in cui stanno andando. Noi diciamo “potremmo esserci persi, chissà da che parte stiamo andando” e lui o lei dice “Guarda il muschio sugli alberi, è chiaro che stiamo andando verso nord” e noi aggiungiamo “Menomale che tu sai queste cose, ci hai davvero salvato la giornata!”. Questo significa aiutare un bambino a dare un senso allo studio, alla conoscenza. Meglio di cento moltiplicazioni. Concedere ad un ragazzo di intervenire in una discussione tra adulti dimostrando una conoscenza appresa a scuola è un’occasione preziosa per valorizzare il suo impegno, più di cento ripetizioni della lezione di storia.
In conclusione, per partecipare attivamente alla vita scolastica dei figli può essere sufficiente creare un ambiente favorevole allo studio, aiutare i ragazzi a stabilire delle abitudini nei tempi e nei metodi, condurli alla convinzione che la conoscenza e il sapere sono importanti, attraverso il quotidiano vivere e non con tante belle parole, incomprensibili ai bambini ed inavvicinabili alla loro realtà. Del resto, il bambino si aspetta il nostro interesse, apprezza il fatto di vedere che ci stanno a cuore i suoi progressi. Evitare di interferire non significa quindi votarsi al mutismo o sparire nel momento dei compiti: il genitore-educatore è pronto a dare suggerimenti se richiesti, indicazioni, o addirittura aiutare il bambino a produrre domande di chiarimento da porre all’insegnante. Il genitore in sostanza si rende disponibile e si dimostra interessato, abbandonando però velleità da docente.
Soprattutto sarebbe opportuno evitare di star loro accanto quando noi per primi non sappiamo mantenere una relazione serena durante lo svolgimento dei compiti, se non siamo capaci di valorizzarli e stimolarli, se non riusciamo a dar loro fiducia nelle loro capacità. Se non sappiamo resistere alla tentazione di fare critiche e paragoni (con noi alla loro età, con i fratelli maggiori, con i compagni più dotati), se non siamo più che dotati di autocontrollo, e se non ci mettiamo in testa che la Santa Inquisizione ha fatto il suo tempo, meglio lasciare veramente che tutto resti in mano loro. Almeno non li avremmo aiutati a detestare definitivamente i compiti a casa.
P.S.
Io stamani ho mandato a scuola mia figlia senza aver svolto il compito d'inglese.
3a media - professoressa nuova d'inglese - i due anni precedenti non hanno fatto neache un terzo del programma.
Il prof. era sempre assente o quando era presente se ne infischiava! :martello2
Ieri mattina viene assegnato questo compito:
Scrivete un e-mail ad un amico inglese descrivete i ristoranti italiani, e la cucina italiana.
Allora, l'insegnante ha valutato il livello di conoscenza dell'inglese, di questi 25 ragazzini?
Mi sono proprio inc...ta!
Ho chiesto a mia figlia della lezione del giorno, di cosa aveva parlato, cosa aveva spiegato .
Risposta: Ci ha parlato di come ha conosciuto il suo ragazzo a Londra!
Sono esterefatta! Oggi vado dal Preside!