xst84
Giardinauta Senior
la febbre dell'oro
Queste sono le sensazioni che potrebbe provare chiunque preferisca al viaggio un giro nei dintorni, di chiunque abbia fatto suoi dei posti prima di andarci. Sensazioni dei dintorni, che non sono affatto diverse dalle sensazioni che hanno tutte le persone dalle loro parti, ma che non bastano a fare di questi dintorni un posto come tanti.
Non mi sento legato a un posto in particolare, ma schiavo dell’occasione di dimostrarlo, questo sì. Solo quelli che hanno altro a cui pensare diranno di saper vedere i luoghi né più né meno che per quello che valgono senza esserci stati, da lontano.
Dovrei allarmarmi perché in questo mondo a dieci minuti di macchina domina l’elemento, come mentre piove. E invece no, perché l’anima dei posti non è dimostrabile.
O in mezzo alle piante utili, oppure in mezzo a ortiche da ogni parte, orecchiazze, ferle e filaccini, questi ultimi quasi da mettere in vaso in autunno per le loro spighe piumose, la cosiddetta erba dei francesi, che anziché comprare la nandina a dicembre ce l’avremmo rossa tutto l’anno, bella appiccicosa per giunta, non si cammina mai a zonzo, si va da quelle parti con l’intento di violare tutto ciò che c’è da avere. Non è predando che impariamo a sentire qualcosa nostro, ma senza una volontà di avere qualcosa di preciso, non ci si muoverebbe. E’ come interessarsi a una persona nuova, non ha senso se non ci vuoi fare qualcosa insieme. Ogni novità ci lega a un posto, basta che si tratti di una cosa improduttiva, che muore con la curiosità del mattino. Ed è più facile camminare nei terreni incolti e aggerbati, mentre in quelli coltivati il passo affonda.
Nel mio territorio si trova di tutto, c’è una diversità notevole da zona a zona: monti, montagnole, colline più alte dei monti, altipiani nascosti da queste, fiumi, intestini di canaloni ciechi, finaite e incroci strategici di ruscelli che hanno fatto la storia dell’evoluzione urbana, valli di Sciacca semideviate, regie scalidde, contrade angioine, acropoli da mappare, ville, boschetti ormai recintati dall’abitato, saie che sembrano funivie, roccieri, fari, scogliere, piattaforme, zubbi, archi azzurri, postazioni militari, pagliai, stagnoncini, vanelloni, portelle, pizzi, rocche, opere pie in posti per falchi, depressioni artificiali, motte, certose con annessi alberi secolari a far da sipari strappati, terrapieni, nache, caseggiati delle varie contrade con atri di un’antica tetraggine, ponti, acquedotti mimetizzati nella macchia mediterranea, terme, trazzere virtuali, piani di mastro Aspano, castelletti che sembrano tralicci di pietra, speroni rocciosi acquisiti dalle villette, dove si fronteggiano grandi alberi, manti d’erba soffocanti e rampicanti inselvatichiti, accanto alle tipiche piante che crescono in fretta, pini, mimose, falso pepe, macchie di fichi ( qualcuno li sestia sul marciapiede ).
Se vogliamo localizzare le attrattive, c’è l’ex feudo frammentizzato dell’Accia con le alture ubriacanti e le cinte basse del Bizolo sin quasi a Risalaimi e alla Traversa che si snodano su un territorio immenso dalla pianura a quello scorrimento veloce naturale chiamato valle Corvo , riflettendo la sua origine di fondo sterminato, chiamato forse Lachia, anteriore ai primi insediamenti urbani, c’è il cono della Porcara con dei tipici boschetti radi, i corridoi di frassino, i sommacchi e i roveti, la grotta della Campana e varie sorgivette, in posizione intermedia invece tra il mare e l’interno c’è la corona di cinta di Consona-Giancaldo, aspra e disabitata a due passi dalle vie dove succede tutto, la Cannita dalla navata carsica, con le stanze alveari fradicie di pioggia, Catalfano sprofondato e inghiottito, una necessaria linea divisoria per chi voglia cercarsi Aspra, Porticello, Solanto e via dicendo, o semplicemente servirsi un piatto a base di mini-orchidee, lentisco, euforbie e capperi, i fiordi secchi di Scannicchia e Briandì con le rocce a sacrario e la strada desertica che scende lo Specchiale, orientati verso il fiume Eleuterio e il mare.
C’è sempre grazia in una pianta anche se la spostiamo dal suo habitat. Come una persona nuova, una pianta nuova è capace di farci cambiare modo di vedere e di agire: l’incontro di due vitalità che cancella l’importanza del posto in cui avviene. Che un ambiente ci piaccia, questo non ci fa cambiare atteggiamento, almeno non verso tutto, non in modo duraturo. A differenza delle piante che vi si trovano, l’anima dei posti è impersonale.
E allora perché fuori da quello che vogliamo al momento, le piante e i posti tutti insieme ridiventano dettagli ?
A me basterebbe una via calpestabile che si sposta sotto di me velocemente e un cielo stilizzato al neon, realizzato in 3d dal computer per essere contento, se non di me e di quello che faccio, voglio e ho, di dove sono.
C’è di più che le piante spontanee sono quelle che forse rappresentano meglio l’individualità, al di là di tutto ciò che facciamo e prendiamo dalla natura. Le piante spontanee di un territorio o di un posto possono rispondere al nostro interesse e alle nostre cure ma non sono conseguenza del nostro interesse, a differenza di quelle coltivate, dei bulbi, dei semi e dei rametti, più grandi, colorati e duraturi che passano di mano in mano da millenni, come parole che viaggiano troppo, più del vento che può portarle, non più legate a un posto e un uso in particolare.
La sensibilità ha bisogno solo di qualcosa cui attaccarsi, non certo di manifestazioni di attaccamento. Infatti “coltiviamo “ degli interessi e delle conoscenze, con uno slancio che vorrebbe essere uguale allo slancio di natura, alla generosità che ci ha messi al mondo, a ciò da cui dipendiamo, al terreno sotto cui mettiamo i piedi, e invece è solo per nascondere la corruzione e la manipolazione perfino delle nostre intenzioni. Neppure nel coltivare dei rapporti abbiamo mai un attimo di sgomento, non avvertiamo un senso di conquista, di desiderio che passa il segno: e questo non perché può finire ciò che crediamo che ci sia, ma perché tutto ci è insensibilmente dovuto, perché a ogni carezza deve seguire un miglioramento, una gratitudine, a ogni interessamento un piacerci, ad ogni atto sensibile un sentirlo, a ogni spontaneità un regalo.
Tutto automatico tranne ciò che si impone da sé, che in realtà non scegliamo: le lavatere ad albero imparentate non si sa bene se con la malva o col ricino, le iris selvatiche, quella specie di genziana che sembra colonizzare l’ombra a macchie ancora più scure, l’unica volta che il blu copre il nero d’ombra, il tabbisi con le sfumature bianco, oro e marrone fosforescenti, il delicato cisto che fuoriesce per miracolo da dei fusticini annodati, con la sua forma da papavero acceso, la valeriana lacrimogena con quei cappucci rosa shocking, la rinedda coi suoi calicetti nani, gli azeruoli coi loro tronchi deformati dalle avversità, quegli incroci di ghiande e piraini coi frutti perennemente acerbi, certi timidi rampicanti pieni di fiori bianchi a v come ellebori, felicemente avviluppati al ribes dell’edera spinosa.
Queste sono le sensazioni che potrebbe provare chiunque preferisca al viaggio un giro nei dintorni, di chiunque abbia fatto suoi dei posti prima di andarci. Sensazioni dei dintorni, che non sono affatto diverse dalle sensazioni che hanno tutte le persone dalle loro parti, ma che non bastano a fare di questi dintorni un posto come tanti.
Non mi sento legato a un posto in particolare, ma schiavo dell’occasione di dimostrarlo, questo sì. Solo quelli che hanno altro a cui pensare diranno di saper vedere i luoghi né più né meno che per quello che valgono senza esserci stati, da lontano.
Dovrei allarmarmi perché in questo mondo a dieci minuti di macchina domina l’elemento, come mentre piove. E invece no, perché l’anima dei posti non è dimostrabile.
O in mezzo alle piante utili, oppure in mezzo a ortiche da ogni parte, orecchiazze, ferle e filaccini, questi ultimi quasi da mettere in vaso in autunno per le loro spighe piumose, la cosiddetta erba dei francesi, che anziché comprare la nandina a dicembre ce l’avremmo rossa tutto l’anno, bella appiccicosa per giunta, non si cammina mai a zonzo, si va da quelle parti con l’intento di violare tutto ciò che c’è da avere. Non è predando che impariamo a sentire qualcosa nostro, ma senza una volontà di avere qualcosa di preciso, non ci si muoverebbe. E’ come interessarsi a una persona nuova, non ha senso se non ci vuoi fare qualcosa insieme. Ogni novità ci lega a un posto, basta che si tratti di una cosa improduttiva, che muore con la curiosità del mattino. Ed è più facile camminare nei terreni incolti e aggerbati, mentre in quelli coltivati il passo affonda.
Nel mio territorio si trova di tutto, c’è una diversità notevole da zona a zona: monti, montagnole, colline più alte dei monti, altipiani nascosti da queste, fiumi, intestini di canaloni ciechi, finaite e incroci strategici di ruscelli che hanno fatto la storia dell’evoluzione urbana, valli di Sciacca semideviate, regie scalidde, contrade angioine, acropoli da mappare, ville, boschetti ormai recintati dall’abitato, saie che sembrano funivie, roccieri, fari, scogliere, piattaforme, zubbi, archi azzurri, postazioni militari, pagliai, stagnoncini, vanelloni, portelle, pizzi, rocche, opere pie in posti per falchi, depressioni artificiali, motte, certose con annessi alberi secolari a far da sipari strappati, terrapieni, nache, caseggiati delle varie contrade con atri di un’antica tetraggine, ponti, acquedotti mimetizzati nella macchia mediterranea, terme, trazzere virtuali, piani di mastro Aspano, castelletti che sembrano tralicci di pietra, speroni rocciosi acquisiti dalle villette, dove si fronteggiano grandi alberi, manti d’erba soffocanti e rampicanti inselvatichiti, accanto alle tipiche piante che crescono in fretta, pini, mimose, falso pepe, macchie di fichi ( qualcuno li sestia sul marciapiede ).
Se vogliamo localizzare le attrattive, c’è l’ex feudo frammentizzato dell’Accia con le alture ubriacanti e le cinte basse del Bizolo sin quasi a Risalaimi e alla Traversa che si snodano su un territorio immenso dalla pianura a quello scorrimento veloce naturale chiamato valle Corvo , riflettendo la sua origine di fondo sterminato, chiamato forse Lachia, anteriore ai primi insediamenti urbani, c’è il cono della Porcara con dei tipici boschetti radi, i corridoi di frassino, i sommacchi e i roveti, la grotta della Campana e varie sorgivette, in posizione intermedia invece tra il mare e l’interno c’è la corona di cinta di Consona-Giancaldo, aspra e disabitata a due passi dalle vie dove succede tutto, la Cannita dalla navata carsica, con le stanze alveari fradicie di pioggia, Catalfano sprofondato e inghiottito, una necessaria linea divisoria per chi voglia cercarsi Aspra, Porticello, Solanto e via dicendo, o semplicemente servirsi un piatto a base di mini-orchidee, lentisco, euforbie e capperi, i fiordi secchi di Scannicchia e Briandì con le rocce a sacrario e la strada desertica che scende lo Specchiale, orientati verso il fiume Eleuterio e il mare.
C’è sempre grazia in una pianta anche se la spostiamo dal suo habitat. Come una persona nuova, una pianta nuova è capace di farci cambiare modo di vedere e di agire: l’incontro di due vitalità che cancella l’importanza del posto in cui avviene. Che un ambiente ci piaccia, questo non ci fa cambiare atteggiamento, almeno non verso tutto, non in modo duraturo. A differenza delle piante che vi si trovano, l’anima dei posti è impersonale.
E allora perché fuori da quello che vogliamo al momento, le piante e i posti tutti insieme ridiventano dettagli ?
A me basterebbe una via calpestabile che si sposta sotto di me velocemente e un cielo stilizzato al neon, realizzato in 3d dal computer per essere contento, se non di me e di quello che faccio, voglio e ho, di dove sono.
C’è di più che le piante spontanee sono quelle che forse rappresentano meglio l’individualità, al di là di tutto ciò che facciamo e prendiamo dalla natura. Le piante spontanee di un territorio o di un posto possono rispondere al nostro interesse e alle nostre cure ma non sono conseguenza del nostro interesse, a differenza di quelle coltivate, dei bulbi, dei semi e dei rametti, più grandi, colorati e duraturi che passano di mano in mano da millenni, come parole che viaggiano troppo, più del vento che può portarle, non più legate a un posto e un uso in particolare.
La sensibilità ha bisogno solo di qualcosa cui attaccarsi, non certo di manifestazioni di attaccamento. Infatti “coltiviamo “ degli interessi e delle conoscenze, con uno slancio che vorrebbe essere uguale allo slancio di natura, alla generosità che ci ha messi al mondo, a ciò da cui dipendiamo, al terreno sotto cui mettiamo i piedi, e invece è solo per nascondere la corruzione e la manipolazione perfino delle nostre intenzioni. Neppure nel coltivare dei rapporti abbiamo mai un attimo di sgomento, non avvertiamo un senso di conquista, di desiderio che passa il segno: e questo non perché può finire ciò che crediamo che ci sia, ma perché tutto ci è insensibilmente dovuto, perché a ogni carezza deve seguire un miglioramento, una gratitudine, a ogni interessamento un piacerci, ad ogni atto sensibile un sentirlo, a ogni spontaneità un regalo.
Tutto automatico tranne ciò che si impone da sé, che in realtà non scegliamo: le lavatere ad albero imparentate non si sa bene se con la malva o col ricino, le iris selvatiche, quella specie di genziana che sembra colonizzare l’ombra a macchie ancora più scure, l’unica volta che il blu copre il nero d’ombra, il tabbisi con le sfumature bianco, oro e marrone fosforescenti, il delicato cisto che fuoriesce per miracolo da dei fusticini annodati, con la sua forma da papavero acceso, la valeriana lacrimogena con quei cappucci rosa shocking, la rinedda coi suoi calicetti nani, gli azeruoli coi loro tronchi deformati dalle avversità, quegli incroci di ghiande e piraini coi frutti perennemente acerbi, certi timidi rampicanti pieni di fiori bianchi a v come ellebori, felicemente avviluppati al ribes dell’edera spinosa.
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