p.s.: la foto è una cartolina, il rifugio lo si vede in basso in mezzo alle due lingue di neve.
Piccola premessa, ho iniziato ad arrampicare e sciare a 40 anni per quelle svolte di vita che a volte succedono giusto a quell'età, e poi ero convinta che se mi fossi legata con la corda al mio allora compagno non mi sarei più slegata, e così fu.
Dopo parecchie arrampicate nelle Alpi Marittime e Cozie con una puntata in Dolomiti, decidiamo di realizzare il nostro sogno, arrivare sulla vetta del Cervino. Prepariamo il programma e decidiamo di salire dalla parte svizzera, più lunga ma più facile del versante italiano. Un mattino dell'agosto dell'88 si parte all'alba per Zermatt. Lasciamo la macchina prima della cittadina dove si può transitare solamente o con mezzi elettrici o con carrozze trainate da cavalli. Giusto per non sentirmi troppo Cenerentola prendiamo il trenino. Zainaccio in spalla e su fino al rifugio Hornlihutte a 3260 metri. Ed eccola la maestosa imponente severa montagna con la sua perenne nuvoletta sulla testa. Alberto va a controllare se trova da dove parte l'attacco della via ed io intanto prendo possesso delle cuccette. La sera a cena le guide svizzere si avvicinano ai tavoli dei loro clienti e bisbigliano, forse per sapere della loro preparazione alpinistica e potersi regolare di conseguenza. Noi ci sentiamo abbastanza pronti...o incoscienti.
La sveglia è alle 3.30, quindi non dormo per niente. Scarponi maglioni giacche zaini e giù a far colazione. Gli altri, perchè io a quell'ora decisamente al massimo un caffè, male, malissimo, bisogna mangiare, ma proprio non ce la faccio.Pronti per la partenza, casco ramponi picozza pila frontale...pila...clic...va a intermittenza..no, si spegne proprio. O si parte adesso o mai più e allora si parte, dietro ad un serpentone di guide con clienti. Ogni tanto Alberto si gira per farmi un pò di luce con la sua pila, finalmente albeggia ed un tormento è finito.
La salita non è per niente bella, da lontano sembrava essere una roccia compatta, invece era uno sfasciume unico, pericoloso. Oltre alla stanchezza che iniziava a farsi avanti ogni tanto dalla parete nord si sentivano cascare mucchi di pietre con un rumore per niente rassicurante.Arriviamo all'ultimo pezzo, quello con neve perenne, bisogna mettere i ramponi. Vuoi per il posto scomodissimo vuoi perchè a casa non li adopero molto, uno lo ho agganciato male e per tutto il tempo me lo sono dovuto strascinare così. Le prime cordate iniziavano già a scendere insieme a tutta la mia invidia, ma alla fine strisciando e con la lingua a mò di sciarpa (io, Alberto era sicuramente nel pieno delle sue facoltà mentali e fisiche )arriviamo sulla vetta...svizzera. E non vuoi andare sulla cima italiana? per un'esile crestina ci andiamo, eccola la croce italiana!1200 metri di dislivello in 6 ore. Dopo una stretta di mano fra il capocordata e il suo secondo e pure un bacino facciamo la foto di rito alla croce ma non certo al panorama che magari sarà stato bellissimo, ma noi non lo abbiamo visto. Si torna, sulla vetta svizzera non c'è più anima viva, le guide hanno frustato i clienti per farli scendere al galoppo!Nella discesa incontriamo due inglesi che ci chiedono informazioni e tre giapponesi che facevano rotolare di tutto . Finito il pezzo innevato abbastanza individuabile inizia quello solo roccioso e lì devo ancora fare i complimenti a mio marito per aver saputo orientarsi in maniera perfetta .Abbiamo anche capito il perchè della premura delle guide, iniziava a nevicare e loro naturalmente lo sapevano. Finalmente siamo in vista del rifugio, è ancora molto lontano, ma ormai siamo tranquilli , ed infine...TERRA...che gioia! Mai più sarei tornata su quella montagna, ma la soddisfazione di esserci riusciti è stata enorme e ancora oggi fra tutti i ricordi di 10 anni di arrampicata è sicuramente il più forte. Il mattino dopo siamo ripartiti per casa non prima di aver assistito al salvataggio con l'elicottero di 7 alpinisti bloccati dalla neve. La fortuna aiuta gli audaci, questo è sicuro.