USO E CONSUMO DELLE PIANTE SELVATICHE DELLA PIANURA EMILIANO-ROMAGNOLA NEL NEOLITICO
Il Neolitico fu uno dei momenti più cruciali della storia dell’uomo.
La nascita dell’agricoltura, dell’allevamento e, conseguentemente, la sua sedentarizzazione cambiò la vita dell’uomo da diversi punti di vista: organizzazione sociale, stile di vita ed alimentazione.
Nonostante questi cambiamenti, l’uomo continuò ad integrare la sua dieta grazie all’attività di caccia e
raccolta.
La raccolta comprendeva una serie di semi, frutti, radici ed erbe che facevano parte del panorama
ambientale.
Nello studio dell’iterazione tra uomo e componente selvatica nel panorama del Neolitico emiliano-
romagnolo, si sono presi da riferimento i seguenti contesti: Spilamberto (MO), Lugo di Romagna (RA) per il
Neolitico Antico (5.500 - 4.800 A.C.); Bazzarola (RE), Rivatella Ca’ Rosmerini (RE), Ponte Ghiara (PR),
Levata di Curatone (MN), Via Navicella –Forlì (FC) per il Neolitico Medio e Recente (Metà IV Millennio.
A.C. - 4000 A.C.)
Lo sviluppo di tale tematica è affidata ad una della discipline archeobotaniche, la Carpologia, che, studia
semi, frutti ed annessi floreali fossili.
Si distingue dalla palinologia (ovvero lo studio dei pollini) che ha come obiettivo la ricostruzione del paleoambiente. Quindi, sicuramente il panorama floristico emiliano-romagnolo era molto più vario e complesso, ma la relazione tra uomo e ambiente è testimoniata principalmente dai semi
e frutti fossili. E’ tale iterazione l’argomento del seguente contributo ed è molto importante non perdere
questo punto di vista durante il corso della lettura.
I FRUTTI EDULI
La componente arbusto-arbustiva, segnalata dalle analisi dei semi e frutti fossili, evidenzia principalmente
piante a frutti eduli: corniolo, nocciolo, quercia, noce, fico, melo selvatiche, prugnolo, more di rovo, vite e
sambuco.
Lo sfruttamento delle risorse che queste piante offrivano non si limitava al consumo diretto, ma gli
studiosi hanno ipotizzato diversi possibili usi: il loro fusto, come nel caso della quercia, era utilizzato per le
strutture abitative o le palizzate.
Dalle piante con semi oleosi come le nocciole, le noci o i semi del corniolo sanguinello si poteva estrarre dell’olio. Le ghiande della quercia venivano tostate e ridotte a farina. Dalla spremitura dei frutti si potevano ottenere dei succhi: con il succo del corniolo, per esempio, si produceva una
bevanda blandamente alcolica (un possibile precursore del vino).
Riguardo al sambuco, sono stati identificati solo semi di sambuco ebbio.
I frutti di questa specie sono tossici, mentre le radici, la corteccia, i fiori e le foglie posseggono proprietà medicamentose.
La radice è lassativo-purgativa, efficace diuretico, la corteccia e le foglie mitigano i dolori reumatici. I fiori essiccati sono impiegati nelle affezioni bronchiali e dell'pparato respiratorio.
Il succo ricavato dai frutti è tintorio (si ricava
un colorante blu), similmente all’olio dei semi del corniolo sanguinello.
La presenza di semi fossili di vite è molto sporadica in tutto il territorio italiano fino all’Età del Ferro a tal
punto da trovare discordi gli studiosi sull’inizio della viticoltura in Italia.
Ad oggi, la problematica rimane ancora aperta, ma opinione comune è considerare l’inizio di questa domesticazione come il frutto di un unione di competenze venute dall’esterno con l’esperienza del substrato autoctono che aveva del nostro territorio.
Interessante è anche la presenza del biancospino che potrebbe avere avuto un utilizzo da parte dell’uomo in
relazione anche alle sue proprietà sedative e rilassanti.
LE PIANTE INFESTANTI
Le infestanti sono piante che vivono in contesti antropizzati e per questo sono definite “indicatori antropogenici”.
Quelle rilevate nei siti emiliano-romagnoli possono essere suddivise tra eduli e non.
Al primo gruppo appartengono: il cardo mariano, il tarassaco, l’acetosella cornicolata, la melissa, l’erba
medica, la portulaca, l’alchechengi, primule, la valeriana, la valerianella e la verbena.
Melissa, valeriana, valerianella, verbena sono piante che hanno proprietà sedative.
Il cardo mariano ed il tarassaco sono piante depurative che stimolano la funzionalità del fegato. Le foglie e fiori dell’acetosella possono essere utilizzati come rimedio per la febbre, influenza, diarrea, lesioni traumatiche e infezioni del tratto urinario.
Nonostante siano piante eduli, non ci sono abbastanza informazioni di tipo archeologico ed carpologico sulle
modalità di uso di queste piante durante il Neolitico.
L’erba medica è una leguminosa che nelle epoche successive verrà utilizzata come foraggio per gli animali.
E’ un ottimo ricostituente poiché ricca di vitamine A, E, C, D, K, B1, B2 e sali minerali.
Nel gruppo delle piante infestanti non eduli troviamo: la borsa pastore, il garofanino, gli indicatori di ambiente umido (il carice e la brasca), lo zafferano selvatico, la festuca pratense, la cornetta ginestrina, il trifoglio campestre, l’ erba morella, l’erba lucciola, l’ erba di San Martino, la damigella campestre ed il caglio.
La specie di Galium verum L., ha la proprietà di cagliare il latte. Gli studiosi ritengono che questa pianta
potesse essere usata per tale funzione da parte dell’uomo. Inoltre possiede proprietà tintorie. Si ricava il
giallo dai fiori ed il colore rosso che si ricava dalle radici.
LE PIANTE INFESTANTI DELLE COLTURE CEREARICOLE
Le infestanti delle colture cerealicole sono, principalmente eduli e le più attestate sono: le Graminaceae/Pomaceae selvatiche, il farinello ed il papavero selvatico.
Le specie della famiglia delle Graminaceae/Pomaceae venivano raccolte indistintamente e consumate
insieme agli altri cereali coltivati. Il giavone e lo spelta iniziarono ad essere messi a coltura solamente a
partire dall’Età del Bronzo. Il primo, che è un cereale a granella piccola, verrà introdotto con le prime
pratiche di rotazione colturale, il secondo è un frumento vestito con una cariosside molto più grossa rispetto
alle specie di monococco e dicocco. Per quanto riguarda l’avena, le cariossidi fossili fin ora ritrovate fanno
escludere una coltivazione di questa pianta fino all’Età del Ferro.
Interessante è anche l’utilizzo del farinello e del papavero selvatico. Il primo, oltre alle foglie, si consumavano i semi che venivano macinati per produrre una sorta di farina. Il secondo si presta a molteplici utilizzi a tal punto da essere domesticato dall’uomo sin dalle fase più antiche del Neolitico.
Oggi, con gli infusi di petali si ottengono dei blandi sedativi, calmanti per la tosse ed espettoranti. Dai petali è possibile
ottenere una tintura rossa per la presenza di antociani rosso vivo. Dai semi è possibile estrarre un olio con
buone qualità dietetiche e ottimo come lenitivo ed emolliente; essiccati sono comunemente utilizzati nella
panificazione e nella confezione di dolci.
L’avvento dell’agricoltura e quindi la capacità dell’uomo di selezionare alcune specie piuttosto che altre a
suo favore, ci evidenzia come la conoscenza delle piante selvatiche sia già ben radicata nell’uomo, frutto di
un’ esperienza ancestrale.
Articolo della Dott.ssa Cristina Ambrosoni laureata in "Ricerca e tutela dei beni Archeologici" e docente presso le Università di Faenza e Ravenna, che mi ha gentilmente permesso di pubblicare questo interessante articolo.
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