si effettivamente è una fucina infinita di tesori naturali ed archeologici (e chissà quante altre cose devono ancora essere rinvenute)
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Trapani - 16 ottobre 2011
Relitto affondato 1700 anni fa: è il più completo mai ritrovato
di Laura Aniello
Recuperate anche ceramiche da cucina databile III d.C. I 700 componenti recuperati verranno «asciugati» con una tecnica speciale in un laboratorio di Salerno
I sub nuotano dentro lo scafo, misurano il fasciame, toccano la chiglia. Davanti ai loro occhi c’è il miracolo di una nave commerciale romana del terzo secolo dopo Cristo affondata e rimasta quasi intatta a dispetto della latitudine niente affatto nordica. Siamo a Marausa, a un passo da Trapani, e questo è il più grande relitto dell’epoca mai tirato fuori nei nostri mari. Operazione titanica, che vede all’opera archeologi, subacquei, ingegneri, restauratori. Bagnati, emozionati, in movimento continuo. Tutti insieme, a tirare fuori pezzo a pezzo un gigante lungo più di venti metri e largo nove, affondato 1.700 anni fa nei bassi fondali durante la manovra di ingresso nel fiume Birgi, che allora era una via navigabile per parecchi chilometri e adesso è soltanto il nome dell’aeroporto della città.
Un tesoro a portata di mano, tre metri di profondità e 150 dalla riva, e nonostante questo rimasto segreto per secoli perché coperto da un metro di argilla e di radici di posidonia, la pianta del mare. Un rivestimento naturale che l’ha tenuta in uno stato eccezionale di conservazione. «È stata la costruzione di un molo abusivo qui vicino a determinare un brusco cambiamento di correnti che hanno eroso la prateria e mostrato il relitto. Senza quel cemento non avremmo la nave», scherza Sebastiano Tusa, il soprintendente ai Beni culturali di Trapani che da dodici anni - dalle prime segnalazioni fatte nell’agosto del 1999 da Antonio Di Bono e Dario D’Amico della sezione locale dell’Archeoclub - sognava di disseppellire quel tesoro e di portarlo alla luce.
«Ormai preferiamo lasciare i relitti dove stanno - spiega - favorire itinerari di turismo sottomarini, ma questo è un caso eccezionale, sia per la mole e l’integrità della nave, sia perché è così vicina alla costa da farci temere per la sua sicurezza. Un’operazione da oltre 800 mila euro, fondi del Lotto. Settecento pezzi, lunghi da 40 centimetri a qualche metro, che adesso saranno assemblati come un gigantesco puzzle, con la stessa testardaggine dei modellisti, ma su scala reale. Destinazione finale il baglio Tumbarello di Marsala, accanto alla sala espositiva che già ospita una nave punica. E allora, eccoli i tecnici della società specializzata «Atlantis» tirare fuori prima il fasciame interno, poi l’ossatura, quindi quello esterno.
E ancora le anfore con le tracce di olive, noci e fichi portati dal Nordafrica verso il mercato siciliano. Poi i segni della vita di bordo, come pezzi di vasellame e di bicchieri utilizzati dall’equipaggio, una decina di marinai che arrivavano probabilmente dall’attuale Tunisia, perché da lì veniva la ciurma di Roma. Infine, tracce del carico di contrabbando: i cosiddetti «tubuli da extradosso», condotte cave in terracotta impiegate nelle costruzioni per alleggerire le volte e gli archi, e che in Africa si compravano a un quarto del costo di rivendita a Roma. «Era un commercio illecito ma tollerato - racconta Tusa - i tubuli venivano nascosti dappertutto, e così i marinai arrotondavano guadagni davvero magri».
Stipendi di Stato, perché queste imbarcazioni commerciali erano dell’Annona, quindi pubbliche, affidate ai navicolari, gli amatori che pagavano i marinai. Ecco quante cose raccontano questi legni inzuppati, portati fuori come trofei. I primi pezzi risalgono dal mare nelle mani dell’archeosub Francesco Tiboni e dell’operatore tecnico Francesco Scardino, entrambi della Soprintendenza del mare, sotto lo sguardo trepidante del direttore di cantiere, l’ingegnere Gaetano Lino. «È un corrente di stiva», esulta lui, termine che indica l’elemento cardine dell’ossatura. Chissà quale maestro d’ascia l’aveva costruita, con una tecnica «a guscio portante», esattamente al rovescio di quella attuale: prima si montava la chiglia, poi l’esterno, quindi l’ossatura, memoria forse dell’imbarcazione primordiale, il tronco scavato.
Adesso tutto è in viaggio verso Salerno, al laboratorio «Legni e segni della memoria» che si occuperà di togliere dal relitto l’acqua di cui è inzuppato e di restaurarlo con una tecnica innovativa che è stata brevettata proprio dai suoi esperti, con l’iniziale collaborazione dell’Università de La Rochelle. Difficile da credere adesso, ma questi legni ammalorati che grondano di mare torneranno a essere quella nave. Intatta e veleggiante, un attimo prima del naufragio, come in un salto sulla macchina del tempo.