Ritratto di Angelo D'Arrigo, morto ieri per la caduta dell'aereo
su cui era a bordo. Insegnava a volare ad aquilotti e gru
Atleta, scienziato, sognatore
la lunga sfida dell'uomo-condor
di MAURIZIO CROSETTI
Angelo D'Arrigo
"SPESSO mi chiedono chi me lo faccia fare, e la risposta è facile: io. Allora la gente mi domanda perché, e io dico che volando mi riempio di un grande sogno. Mi emoziona vedere cosa c'è dall'altra parte dell'orizzonte. Certo sarebbe bello avere le ali, averle veramente. Io mi accontento di guardare da vicino il mio sogno". Maggio 2004. La voce di Angelo D'Arrigo era un soffio, dentro le intermittenze del telefono satellitare. Andava, veniva, volava. Proprio come lui. Ma non cadeva. Nel vento delle sue parole che precipitavano dall'Himalaya e rimbalzavano nelle nostre vite normali, senza grandi voli, c'era il tumulto della vera passione.
Angelo aveva un modo di parlare bellissimo, con quell'accento mezzo francese e mezzo si**** gli uscivano frasi da poeta e visionario. "Oggi ho dato da mangiare agli aquilotti, mi sono messo il becco finto e loro mi hanno preso per la loro mamma". Perché lui faceva nascere questi rapaci in cattività e poi gli insegnava a volare. "Faccio schiudere le uova sotto l'ala del mio deltaplano, dopo aver fatto ascoltare la mia voce a quelle uova per dieci minuti al giorno, nell'incubatrice. Insieme alla mia voce, ho registrato il sibilo del cavo del deltaplano, così gli uccelli appena nati mi possono riconoscere".
E i cuccioli spelacchiati poi lo seguivano. Gru siberiane si mettevano a veleggiare accanto alla loro mamma Angelo, e dal circolo polare artico se ne andavano a spasso fino in Iran. Invece l'aquila Gea lo tallonò in Himalaya, nella valle del Khumbu. "Poi venne il momento di separarci, lei doveva andare a farsi il nido, cercandosi un compagno. E i genitori sanno quand'è il momento di lasciar volare i figli da soli".
Anche Angelo lo sapeva, lui che di figli veri ne aveva tre, non solo le gru siberiane o l'avvoltoio australiano, tre bambini in carne e ossa: Gioela, Gabriele, Ivan. Il più piccolo ha solo due anni. Nella dedica all'inizio del suo libro "In volo sopra il mondo", Angelo ha scritto: "A mia moglie Laura, sempre al mio fianco, e ai miei figli che in certi momenti hanno patito l'assenza del papà, ma che saranno la mia proiezione nel futuro".
Un fantasioso, un sognatore consapevole, uno che cercava la linea dell'orizzonte per spostarla più in là. "Un po' di pazzia è in tutti noi, e va contenuta e strutturata perché non ci rovini". Ma Angelo sapeva che la vita può andare in stallo in un momento. È morto su un aeroplanino cadendo da duecento metri d'altezza, facendo il passeggero, lui che volava su a novemila senza motore, ed era stato il primo al mondo a sorvolare l'Everest in volo libero (2004), il primo ad attraversare la Siberia per 5.300 chilometri, il primo a solcare il Mediterraneo (facendosi pure un mese di carcere il Libia, dopo essere stato intercettato e catturato), il primo ad attraversare il Sahara.
Maestro di sci, alpinista, pilota con 30 mila ore di volo, aveva quasi rinunciato a record e cronometri per la pura natura, per aiutare gli uccelli in via di estinzione, per insegnare e imparare insieme a loro. Un Konrad Lorenz con le ali. C'era, in ogni sua impresa, almeno una triplice possibile lettura: quella sportiva, quella naturalistica e quella metafisica.
Angelo D'Arrigo sapeva tuffarsi in picchiata a 240 all'ora, a 40 gradi sotto zero, tra venti fortissimi e con l'ossigeno che se ne andava dal cervello ("In quei momenti si rischia il panico fobico, bisogna essere pronti e calmi altrimenti si muore"), e nello stesso tempo accudire un aquilotto con infinita pazienza e lentezza.
Assemblava il suo trabiccolo sotto lo sguardo dei monaci tibetani, non aveva smarrito neppure un atomo delle esperienze e degli incontri con tuareg e sciamani, aveva sorvolato deserti e vulcani, catene montuose e mari in tempesta, ora sognava di veleggiare sul ghiaccio dell'Antartide superando il Monte Wilson: contava di farlo tra un anno, dopo i soliti allenamenti tremendi perché Angelo non era un matto coraggioso e improvvisatore, era uno scienziato, un formidabile atleta e un umanista.
Laureato all'Università dello sport di Parigi non aveva mai abbandonato la Sicilia, dove viveva in un rifugio alle pendici dell'Etna: il campo base della sua vita in decollo perenne, dove il coraggio delle partenze s'incrociava con la malinconia di un ciao che ogni volta poteva essere un addio.
Nella pagina principale del suo sito Internet, in cui Angelo D'Arrigo vola più vivo che mai, c'è scritto: "Spingendo quotidianamente i nostri limiti riusciamo, a piccoli passi, a superare le paure che ci vietano il possesso della nostra esistenza". Una paura da vincere dunque a piccoli passi, non con i grandi voli sopra la punta dell'Everest. Quello semmai viene dopo.
Lo chiamavano "il Condor dell'Aconcagua" perché a gennaio aveva superato il suo record mondiale di salto in alto, arrivando a 9.100 metri sulle Ande argentine. Ma i numeri in colonna non erano un'ossessione, semmai un gioco sportivo, la scommessa del limite estremo per collaudare la tenuta delle tute sigillate, del suo deltaplano, e di quell'altro meraviglioso materiale che si chiama uomo.
Il possesso della nostra esistenza, già. Appeso al fragile scheletro di bacchette e tessuto, con il vento come unico motore, Angelo D'Arrigo cercava un senso e il modo per raggiungerlo. Quando il 24 maggio 2004 sorvolò l'Everest, disse che per l'emozione aveva pianto. Ma a quaranta gradi sotto zero anche le lacrime ghiacciano. "Non devo chiudere gli occhi proprio adesso, pensai. Non li chiuderò".
(
27 marzo 2006)