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Chi suona uno strumento musicale?

monikk64

Fiorin Florello
Vedi che prima o poi devi proprio venire a trovarmi ???
Hai un sacco di vetrine sbrilluccicose da vedere..... :)
 

Waves

Master Florello
Che gentile! :bacio::bacio:
200.gif
 

Waves

Master Florello
Ahh, vedi che ti sottovaluti.... In tre anni un po' di cosette le hai sicuramente imparate!!!!!!
Non perderle, ti prego ti prego ti prego.... sarebbe un peccato...
E poi in inverno non si fa giardinaggio, qualche lezione.... ;););)
Così in estate, chi passa davanti a casa tua viene irretito dai tuoi bellissimi fiori e dalla musica che esce dalle finestre aperte.... :V:V:V

Questa me l'ero persa! che bella immagine....:love: solo che le piante non le vedrebbe nessuno...:ROFLMAO:in estate è tutto un seccume unico tranne le poche elette che vengono messe al posto d'onore sul balcone :D:D
però, tanto per cominciare, potrei riprendere i vecchi branetti...:)sempre che mi riesca recuperare il quaderno! o_Oo_O il disordine cronico è un problema..:whistle::ROFLMAO::ROFLMAO:
 

TiZeta

Aspirante Giardinauta
Rispondendo alla domanda della discussione:
La batteria è finita in cantina, chissà che non torni in auge prima o poi...
Intanto mi diletto ad infastidire moglie e figli strimpellando (male) una chitarra classica scordata di un semitono,
così per darmi un tono.
 

TiZeta

Aspirante Giardinauta
no no, è una stanzina asciutta nel seminterrato, sollevata da terra su un bancale... ma non capisco cosa interndi per parte piatta.
Comunque i fusti sono in betulla.
 

monikk64

Fiorin Florello
Quella circolare dove si battono le bacchette! :) che anticamente, se non sbaglio, era di pelle d'asino... (???)
 

Olmo60

Guru Master Florello
ehm....vi va di leggere una storia di musica molto particolare? tanto mica avete niente da fare, vero???? :p:D
è un po' lunga....ma per onorare la memoria di un genio del pianoforte e la sua forza straordinaria.......M. Petrucciani:su: :)


"Così adesso sono morto, cavoli, e nella tomba vicino alla mia c'è nientemeno che Chopin. Se me l'avessero detto quand'ero piccolo non ci avrei mai creduto. A parte che grande non sono diventato mai, ché anche a trentasei anni ero alto un metro e due centimetri.
Certo che morire a trentasei anni non è mica uno scherzo, è come un racconto breve che finisce subito, è un po’ presto, cavoli, morire a trentasei anni. Ma d'altra parte lo sapevo già, lo sapevo già che finiva male, la mia vita. La mia vita è cominciata male dall’inizio, sì, perché già quando sono nato mi sono rotto in mille pezzi, mi sono sbriciolato come un biscotto. Eh sì, perché le mie ossa avevano poco calcio dentro, e così sono sempre stato come una meringa, che appena la tocchi va in frantumi. Osteogenesi imperfetta,la chiamarono, che poi vuol dire che c'hai le ossa che sembrano grissini.
Ero brutto già da piccolo, io, perciò ero goloso di bellezze. Guardavo sempre la televisione, ché lì dentro c'erano un sacco di bellezze. C'erano le donne coi capelli lunghi e gli occhi grandi, e c'era la musica che mi piaceva. Quando avevo quattro anni alla televisione una volta c'era Duke Ellington che suonava, ed è stato lì, è stato proprio lì che mi sono innamorato del pianoforte, e così ho chiesto subito a mio padre se me lo regalava. I miei me ne comprarono uno, certo, ma siccome era un pianoforte giocattolo io dalla rabbia presi il martello e lo sfasciai, perché anche se avevo solo quattro anni volevo un pianoforte vero, io.
Il piano vero me lo regalarono, solo che ai pedali non ci arrivavo, cavoli, allora mio padre costruì una prolunga che se coi piedi la schiacciavi si schiacciavano pure i pedali. E, quel piano allora Io suonai talmente tanto che anche quando non lo suonavo non smettevo di pensarci, perché mi si era infilato dentro il sangue. “Ti mando a lezione di musica classica, allora, Michel”, fece mia madre, e io ci andai, ci andai per otto anni, ci andai, ma a casa la sera ascoltavo i dischi jazz di mio padre, che mi piacevano di più. Mio padre aveva un negozio di strumenti e suonava la chitarra, era bravo, e aveva un bel mucchio di dischi. Io li ascoltavo ogni giorno e li sapevo tutti a memoria, ma mio padre non ci credeva. Sentiamo, fece una volta, e io attaccai e cantai tutti i pezzi, glieli cantai uno dietro l'altro. “Merda!”, disse lui, e poi non disse niente più.
Quando in negozio veniva qualcuno per comprare un piano mio padre mi chiamava e mi diceva: “Faglielo sentire, ragazzo, dai”, e io mi mettevo seduto e attaccavo, facevo qualche numero di jazz di quelli giusti e quello lì restava secco, cavoli, ascoltava con la bocca aperta e alla fine il piano poi se lo comprava. Stavo sempre in negozio, stavo sempre con le mani sopra i tasti. E se smettevo era solo per ascoltare un disco. A scuola i miei non mi mandarono, per non farmi prendere in giro dai compagni.
 
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Olmo60

Guru Master Florello
Siccome a scuola non ci andavo, da scuola mi mandavano le cassette con le lezioni registrate, ma io nemmeno le ascoltavo, le cassette. Ci registravo sopra la musica che suonavo, così potevo riascoltarmi. Mi riascoltavo e calcolavo la differenza tra me e Bill Evans, che col piano ci faceva le magie, e sempre mi pareva lui più bravo.
Poi un giorno arrivò Terry. Quando il trombettista Clark Terry capitò dalle mie parti, il suo pianista mangiò qualche schifezza e gli venne la cagarella, e allora Terry cercava un pianista per farsi accompagnare, e la gente gli disse che in zona c'ero io, ma lui disse che un ragazzo di tredici anni era troppo piccolo per accompagnarlo, e che la cosa non si era mai vista da nessuna parte. E quando poi mi vide disse che sembravo ancora più piccolo di uno di tredici anni, e che con uno così proprio non ci avrebbe mai suonato.
Ma quando mi piazzarono sullo sgabello e cominciai a darci dentro, disse che uno così bravo non l'aveva mai sentito, e cavoli, se potevo andare. Clark Terry mi piaceva, gente, era un tipo a posto, aveva cominciato a suonare da ragazzo, nei bar e poi nella banda della Marina Militare, ma poi aveva suonato anche col grande Duke e adesso mi voleva, voleva proprio me. Così entrai un po’ nel giro, e a quindici anni suonai pure con Kenny Clarke, un nero che era uno che picchiava forte sulla batteria e pure sul vibrafono, e che aveva inventato un nuovo modo di suonare il piatto della batteria. Ragazzi, la faceva parlare, la faceva.
A diciott'anni me ne scappai di casa, presi la mia roba e me ne andai a Parigi dove registrai il mio primo album. Cominciai a suonare Pure con Lee Konitz, uno che aveva imparato la fisarmonica da solo, e dopo il clarinetto e dopo anche il sassofono, e col sassofono ci sapeva fare, ragazzi ci sapeva.
E pure se non avevo soldi e camminavo male a diciannove anni presi l'aereo da solo, il biglietto lo pagai con un assegno a vuoto e me ne andai in America, perché era lì che c'erano i grandi jazzistti, lo sapevo, e io volevo suonare insieme a loro.
E lì incontrai Charles Lloyd, che ormai faceva l'hippy in mezzo ai boschi e che era triste e non suonava più perché il suo pianista lo aveva abbandonato, e quando arrivai per colpa mia ricominciò a suonare il sax con me e con altri due matti e insieme facemmo un bel quartetto. Suonammo in un mucchio di città, e sempre andava alla grande, e quando suonammo a Montreaux il mio nome all'entrata era scritto grande sulla porta, Michel Petrucciani, e su un giornale scrissero che quel concerto dimostrava la vera statura che avevo raggiunto in così poco tempo, e mi ricordo che quando a colazione sul giornale lessi la parola statura mi andò la spremuta di traverso e dalle risa caddi pure dalla sedia, e a momenti mi rompevo. Suonai con loro per tre anni e dopo me ne andai e cominciai a suonare solo.
Lo amavo, il pianoforte. Alle prove toccavo quella cassa lucida. Quando guardavo dentro ci vedevo i denti del pianoforte che rideva. E quella tastiera così lunga. Avevo un callo osseo nella spalla che non mi lasciava allargare bene il braccio, e ai concerti, per arrivare in fondo alla tastiera, saltellavo sul sedile come un merlo. La gente, siccome mi sporgevo, aveva paura che cadessi, ma non cadevo mai, perché con l'altra mano mi tenevo al pianoforte. Una volta che il pubblico lo sentivo tutto teso, mi fermai e chiesi:
“Come va?”
Allora tutti risero e si misero più comodi sopra le poltrone, e io continuai.
Ai concerti c'erano sempre donne belle che mi portavano sul palco, mi portavano in braccio come un bambino, tanto pesavo solo venticinque chili, ma poi a venticinque anni imparai a camminare con le stampelle, e da allora sullo sgabello mi arrampicai da solo, senza paura, perché alle mie mani veniva sempre una gran voglia di toccare i tasti. Quando mi portavano sul palco, anche se ero francese mi sentivo napoletano e spaccone come mio nonno che pure suonava la chitarra, e appena cominciavo a suonare dicevano che si vedeva proprio che ero preso dalia musica, ecco, che si capiva da come tenevo alta la testa con gli occhi persi dentro l’aria, senza guardare la tastiera. Ma io la testa la tenevo alzata solo per respirare meglio, se no l'ossigeno mancava.
 
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Olmo60

Guru Master Florello
A volte un osso si rompeva, mentre suonavo, una clavicola, che so, una costola, una scapola, ma il dolore io me lo tenevo e stavo zitto, e di suonare non smettevo mai, perché era bello come quando fai l’amore.
E una sera dopo un concerto c’erano due ragazze, una con le fossette e una col codino, e quella con le fossette mi guardò e aveva gli occhi neri neri, e si chiamava Erlinda, e le sorrisi, e lei davanti a tutti mi prese in braccio e mi baciò. E così dopo un po’ ci sposammo. Non era una donna qualsiasi, Erlinda Montano. Era un'indiana Navajo, cavoli, una pellerossa. Una pellerossa e un nano, ragazzi, ci pensate? Avevo ventun anni, allora, e uscì un mio disco che aveva dentro un pezzo che si chiamava Erlinda come lei. Lei lo ascoltò e sorrise, e fece le fossette.
E con Erlinda ero felice e andavo al mare, e al mare mi compravo camicie a fiori e camicie con le palme, camicie hawaiane con le maniche corte che mi sentivo subito in vacanza. E non le compravo nei negozi dei grandi, le camicie, no, le compravo nei negozi per bambini. Ah, ci stavo così bene, con Erlinda.
E dopo venne Eugenia, che mi diceva sempre che sotto le coperte ci sapevo fare, e fare l'amore mi piaceva, perché era proprio come suonare il pianoforte. E quando le facevo le carezze Eugenia diceva che mani calde, Michel, che mani calde, e davvero me le sentivo calde, le mani, come ci fosse dentro la musica bollente che voleva uscire.
E anche a Eugenia dedicai un pezzo che si chiamava Eugenia come lei. Mi piaceva un sacco, Eugenia, e restai con lei per cinque anni, e la lasciai il giorno prima delle nozze perché avevo conosciuto Marie-Laure, che mi diede un figlio, Alexander, con la mia stessa malattia. Eugenia pianse a più non posso, quando le dissi che la lasciavo, ma che potevo farci, uno non può voler bene quando non vuole bene. Adesso stavo con Marie-Laure, la amavo, e quando le chiedevo se mi trovava bello, Marie-Laure diceva che ero bellissimo, e che la musica mi stava dentro come un fiore dentro un vaso, e quando usciva profumava.
Suonare mi faceva stare bene, ragazzi, non ve l'immaginate, le mani diventavano di fuoco. Con le mani sui tasti ero felice.
Componevo. Una volta scrissi un pezzo lento di sole quattro note che mi piaceva tanto. Forse era il più bello, perché era bello e semplice, e dolce come una poesia. Cantabile, si chiamava, Cantabile, perché veniva voglia di cantarlo come una canzone, anche se non aveva le parole.
E un giorno a Bologna insieme a Lucio Dalla suonai pure davanti al papa, e Lucio suonò il clarinetto che sembrava che piangeva, e io suonai come una preghiera. Alla fine Giovanni Paolo era commosso, e anch'io ero commosso, e mi volevo inginocchiare e non riuscivo. E mi ricordo che mentre suonavo i monsignori battevano il tempo con il piede, e con le mani facevano oscillare a tempo le sottane e, cavoli, ci mancava poco che si alzassero e si mettessero a ballare.
Quando suonavo certe volte mi mettevo in testa berretti strani, coppole da siciliano e cappelli grandi che sembravano sombreri, e ci sudavo dentro ma non me li toglievo, me li tenevo stretti e andavo avanti, e sudavo di brutto dentro le camicie che alla fine erano bagnate che se le strizzavi usciva l'acqua, e scendevo dal palco sudato marcio, e quando scendevo dal palco non ero mai solo, perchè le donne mi volevano, mi correvano dietro, gente, per i baci e per gli autografi, e così dopo Marie-Laure venne Gilda, e pure lei suonava il piano, suonava musica classica e le piaceva Chopin. Era siciliana, insegnava al conservatorio, e senza che mi avesse mai parlato prima mi disse che da molti giorni mi seguiva, perché una volta a un concerto il ricordo delle mie mani Ie era rimasto come una compagnia. E le volevo così bene che me la sposai, Gilda, me la sposai e dopo un poco divorziammo.
E per ultima venne Isabelle, con gli occhi chiari, Isabelle che mi voleva bene più di tutte, che cercò di farmi vivere in una casa parigina e cercò di farmi smettere di bere e di drogarmi.
E tutte queste storie le volevo perché volevo vivere storie d'amore con delle donne belle, storie d'amore come quelle che vedevo alla televisione, dove lo sposo prendeva la sposa in braccio, la portava nella stanza e dopo si baciavano. Solo che le mie donne erano loro a prendere in braccio me, e io volentieri le lasciavo fare.
Volevo dormire con delle donne belle, cavoli, ma certe notti dal dolore nelle ossa non dormivo, e quelle notti che arrivavano una dietro l'altra la spalla, i nervi, il polso, l'osso del ginocchio li sentivo a uno a uno. Solo le mani erano forti e sempre calde.
 

Olmo60

Guru Master Florello
Suonare suonavo, suonavo sempre. Mi arrampicavo sullo sgabello e poi partivo come un razzo, andavo in orbita. Avevo sempre i riflettori in faccia, mentre suonavo, e nel buio non vedevo niente, ma quelli giù dal palco nel buio li sentivo che trattenevano il respiro, mentre picchiavo sopra i tasti, e non tossiva mai nessuno, non tossiva, e nessuno si soffiava il naso mai.
E quando cominciavo dalle dita mi usciva fuori tutta quella musica, mi usciva, veniva fuori come acqua fresca, bagnava la tastiera e andava giù sul legno delle tavole del palco, colava giù sul pavimento e bagnava i piedi degli spettatori a uno a uno, e gli saliva per le gambe e andava su, e a quelli gli veniva freddo, e alla fine con le luci accese li vedevi tutti bagnati, in piedi, tutti inzuppati che battevano le mani. E dopo le donne venivano nel camerino e mi baciavano. E lo sapevo ch'ero brutto, ma con la musica e le donne mi veniva tutta la bellezza.
Guadagnavo bene, guadagnavo. Da non crederci. Mi davano un sacco di soldi, ragazzi, e quando suonavo con gli altri musicisti dividevo sempre in parti uguali, anche se loro non erano famosi come me. E con la limousine si andava negli alberghi a quattro stelle e come mi piaceva. In camera schiacciavo tutti gli interruttori e accendevo tutte le luci insieme, accendevo, e dopo aprivo il frigo e mi bevevo tutto quel che c'era, e ogni sera facevo il bagno nella vasca con la schiuma dentro.
Una volta a Bergamo mentre suonavo mi ruppi il braccio destro, ma nessuno se ne accorse, perché suonai tutto il tempo con il braccio rotto come niente fosse. A un altro concerto una sera suonammo per due ore, faceva un caldo boia e sudai come una fontana. Le mani mi scottavano, la testa pure, ero stanco e avevo mal di schiena, e avevo solo voglia di tornarmene in albergo e di sdraiarmi a letto. Ma quelli chiesero il bis, e poi un altro bis e un altro ancora, e così suonai ancora per mezz'ora, suonai, e a casa il medico disse che mi ero rotto il coccige, che è l'osso del sedere, l'ultimo osso della schiena prima del culo.
Dopo i concerti il mio medico mi visitava, scuoteva Ia resta e diceva basta, Michel, basta, non puoi andare avanti in questo modo. E dopo con le mani in tasca andava su e giù per lo studio, mi guardava storto, si arrabbiava e mi proibiva di fare altri concerti, e io invece sorridevo e li facevo. Li facevo perché erano la mia vita, i concerti, come il cibo, le donne e gli amici.
Mi piaceva, la vita, cavoli. Mi piacevano un sacco di cose. Suonare, fare l'amore, stare con gli amici. Anche mangiare, mi piaceva, e a casa a volte venivano gli amici e cucinavo io, e si mangiava e si beveva alla grande, col vino, i dolci e la pasta fatta in casa, e il piatto che facevo meglio era il Pollo alla Petrucciani, che ti leccavi i baffi. E quando cucinavo il pollo mi ci mettevo di gusto, mi ci mettevo, e lo facevo bene, e farlo bene era più difficile che suonare il piano. Mangiavamo e bevevamo, e a un certo punto c'era sempre qualcuno che suonava.
 

Olmo60

Guru Master Florello
E, dopo mangiato, quando tutti se ne andavano, giocavo sul tappeto con mio figlio Alexander, e giocavamo piano perché aveva le ossa di ricotta come me, e un giorno, mentre giocavamo piano, all’improvviso fece la faccia triste, guardò sua madre e disse: “Perché mi hai fatto?”
Andavo a tutta birra, suonavo dappertutto e con tutti, ormai. Quando suonai con Dizzy Giilespie vidi che aveva una tromba tutta storta, e gli chiesi ma come fai a suonare? E lui rispose che era stata la moglie che gliel'aveva stortata picchiandola sul pavimento, e che da allora la tromba suonava molto meglio. Suonai con Miies Davis che con la tromba faceva venire Ia malinconia. E, poi suonai al Blue Note, che non me lo sarei mai sognato, il Blue Note, cavoli.
Mio padre era orgoglioso, diceva che ero proprio bravo, con il piano. Che ero il migliore. “Quando non ci sarò più”, diceva, “tu suona, suona sempre, Michel, e mentre suoni ricordati che sarò sempre sopra di te che ti guardo da là sopra”.
E, invece adesso sono io che da qua sopra guardo lui.
Venne un Natale, e Natale io lo odiavo, perché da bambino a Natale e a Capodanno ero sempre in ospedale con qualche osso rotto.
Finalmente venne un Natale che ero tutto intero e avevo solo un po’ di raffreddore, e dopo venne Capodanno, e a Capodanno, per andare a passeggiare in spiaggia con la mia donna per mano, mi beccai quella polmonite, e sulla spiaggia caddi a terra come un fico secco. Mi tirai su da terra e le cose non erano più cose, erano ombre. Allora Isabelle mi prese in braccio e mi baciò, e dopo andammo all'ospedale. Seduta sulla sedia aveva quello sguardo strano, che usciva da quegli occhi chiari pieno di paura. E dal letto la guardavo che piangeva con quegli occhi grandi e chiari e sorridevo e pensavo che io così brutto ero felice di avere vicino una donna così bella, e pensavo che sempre avevo avuto accanto donne belle. E poi il 6 gennaio da sotto la coperta le dissi che avevo freddo alle mani e le chiesi se me le voleva riscaldare.
Lei allora prese le mie mani nelle sue e me le scaldò, e dopo uscì un momento a prendermi un caffè, e io proprio in quel momento sono morto, cavoli, il 6 gennaio, e adesso qui vicino a Chopin mi viene da ridere, a pensarci, perché io, pieno di donne belle, sono morto proprio mentre arrivava la befana."
tratto da: Antonio Ferrara, in “Parole Fuori” edizioni Il Castoro, Milano, 2013

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Olmo60

Guru Master Florello
si, la storia è toccante...e vederlo suonare mette i brividi anche a chi non piace il jazz..... altre storie musicali? :)
 

Delonix

Florello Senior
Ho conosciuto un ragazzo che cantava, tempo fa, aveva cominciato da giovane, sui 14/15 anni, i primi anni delle scuole superiori. Si era accorto che gli piaceva cantare perchè non avendo grandi capacità nel suonare il flauto dolce alle scuole medie, la sua professoressa, per disperazione, lo mise nel coretto di "contorno" ai virtuosi dello strumento musicale. Il ragazzo si sentiva intonato, ma soprattutto, gli piaceva!!! Una deficienza musicale che scatenò una passione musicale!

Passò un anno silente, poi il caso si presentò sotto forma di opuscolo pubblicitario. Dalla buchetta della posta un foglietto illustrava una serie di corsi pomeridiani di una associazione a pochi metri da casa. Sport vari, balli di gruppo, la solita chitarra per principianti e... Tecnica di canto. Un corso per imparare a cantare. Per chi come lui non aveva mai studiato. Ma che voleva imparare. Lui doveva sapere come si faceva a cantare. Era diventato complicato seguire le canzoni alla radio, perchè quelle facili non le voleva cantare più, voleva cantare quelle canzoni che diceva lui.
Presentò l'opuscolo al padre: Posso iscrivermi? E' qui vicino, al pomeriggio...

Il primo giorno all'associazione era tutto un fremito, non stava nella pelle. Si presentò davanti a lui un uomo tracagnotto, pochi capelli, barbetta curata, una voce calda e ferma: il suo insegnante!
Assieme a lui si era iscritta un'altra ragazza della sua stessa età, cinese, ma con un nome italiano. Cominciarono dall'anatomia degli organi fonatori, poi il controllo del respiro (il fiato!), la ricerca dei "luoghi" dove far suonare la vibrazione. Aveva cominciato a imparare come si canta!
Il maestro era contento della coppia di giovani allievi:- se potessi prenderei solo ragazzi della vostra età, in 6 mesi avete imparato quello che non imparano certi adulti in 2 anni.
La madre venne messa al corrente, un pomeriggio a fine corso:- il ragazzo è bravo, dovrebbe continuare- Così fu. Le lezioni diventarono private, e ci si trasferì a casa del maestro a provare.
Alti e bassi, lo studio non era una passeggiata. E lui era giovane, stava ancora maturando i suoi orizzonti musicali. Il maestro era un lirico, il ragazzo non si sentiva troppo affine a quella musicalità, o forse sì, o forse no...

Cominciò a frequentare un coro, quello universitario: un cucciolo, una mascotte in mezzo a quei ragazzoni laureati o quasi. Quanto si divertì quell'anno! Le lezioni continuavano e lui cantava, cantava, cantava sempre di più. Venne anche il saggio finale, era la sua prima volta in pubblico. Era così teso che i muscoli delle spalle erano doloranti. Pregò la ragazza dal nome strano di massaggiarglieli un attimo... mai tocco fu più efficace! Cantò come un leone, con tutto il fiato che aveva in corpo! Applausi! Certo, erano per il coro, ma lui era parte di esso. Raccontò ai genitori che era stato bellissimo!

Stop! Bisogna smettere di studiare, costa troppo!
Anni senza lezioni, ma mai senza musica: ogni pomeriggio riscaldamento, musica in audiocassetta a tutto volume, e via si canta. Per anni. Ogni giorno. Tutti i santi giorni litri di aria fatta passare attraverso le corde vocali in vibrazione. Tieni il fiato. Canta!
Un altro coro che trovò, non se lo riuscì a godere mai come il primo, i maestri erano un po' strani (matti?) e cantare in inglese il gospel per lui era difficile, non per le note, per la lingua che non conosceva. Lasciò quel coro perchè per lui cantare significava divertirsi, godere della musica.

Si iscrisse all'università, contemporaneamente lavorava nel bar di famiglia, un po' di denaro personale, strappato con le unghie e con i denti; che poteva farci se non... riprendere a studiare canto?! Trovò un'insegnante diversa, per imparare anche altri stili, altri metodi.
Non lo disse a nessuno. Nessuno a casa lo sapeva, all'università altrettanto. Decise di dirlo solamente dopo mesi, con un biglietto: l'invito al saggio finale. Aveva preparato due pezzi con un giovane e capace chitarrista. Una intera piazza di paese a disposizione. La performance andò bene, era soddisfatto. Lo era anche chi venne a vederlo: la sorella, gli amici, i compagni di università. I genitori no, non c'erano.

Continuò le lezioni, i concerti si avvicendarono, la voce era sempre più ferma, tonda, stabile, affidabile, estesa... Scoprirono che aveva DUE voci: era un tenore ed anche un sopranista. Repertorio maschile, classico o moderno e, per gioco, repertorio barocco, femminile o dedicato ai castrati... seguì poco quella via, se ne vergognava un po' anche se era divertente cantare in falsetto. Un pianista controllò la sua estensione, decretò:- mezzo tono sotto la Ricciarelli-

Un giorno d'estate la sua insegnante gli parlò:- C'è un provino, è un musical di lirica moderna, vuoi provare?- Tentò.
Quel pomeriggio se la faceva letteralmente sotto, non era mai stato così agitato in vita sua. Portava la canzone che all'ultimo saggio fece piangere qualcuno tra il pubblico, eppure... fece schifo! Non azzeccò decentemente una nota, ma si muoveva in quella stanza mentre cantava, sorrideva dissimulando tranquillità ma era una corda di violino. La pianista, che lo conosceva bene, disse:- Dai, facciamo sentire al maestro come canti in falsetto...- E lì, spiazzato lui, spiazzati tutti, spaccò il mondo! Buona la prima. Preso! I suoi genitori invece non la presero bene, neanche un po'. Forse preferivano continuasse a lavorare per loro, quasi gratis, al bar... Non li ascoltò e partì. Non fu facile dare quel colpo di testa.

Si presentò in quel luogo perso nel nulla, per cominciare a provare. Ore ed ore di prove giornaliere di canto, ma soprattutto: ballo! e lui era un bastone! terribile! anche se il coreografo, ex primo ballerino del Bolshoi, vedendolo camminare disse col suo accento russo:- Tu nato pe' balleto clasico, guarda che tu tiene terza naturale- Rispose:- Io pensavo solo di camminare coi piedi a papera!-
All'inizio tutto era meraviglioso: le ballerine che volteggiavano, i cantanti che cantavano, lui studiava le parti per i cori, gli diedero anche una frasetta da solista. Il protagonista era uno che lui vedeva cantare alla tv, si chiamava Antonello, lo vedeva col presentatore che scriveva canzoni per... la sua cantante preferita.
La notte di San Lorenzo fecero tutti festa, non era certo complicato fare un po' di musica, anche lui cantava e lo fece anche davanti al protagonista del musical, che lo guardava con due occhi che non si capiva cosa cercassero. Il ragazzo disse ai musicisti:- Suonate qualcosa che piace ad Antonello- E Antonello si avvicinò a lui e gli disse:- No, no, canta tu che è meglio!- Questa frase lo colpì profondamente, gli fece pensare:- Ma allora so cantare!

Si rese presto conto, però, che c'era qualcosa che non tornava... Paga sconosciuta, prove, prove, musicisti fantomatici che non si presentavano, prove, coreografi che si alternavano cambiando i balletti che avevi tentato di imparare, cantanti che dovevano arrivare dall'altra parte del mondo ma.... prove su prove. Non si sapeva quali erano le date o i teatri dove si sarebbero esibiti. Una fatica bestiale, vitto scarso e lui dimagriva a vista d'occhio. Il regista era una bestia di ignoranza e spocchia inarrivabili, mai viste!
Tornò a casa per Ferragosto, non trovò un'aria amichevole. Era piuttosto amareggiato. Si pesò: 47 kg. Troppo pochi per reggere ancora mesi di prove e di fame senza nessuna certezza di nulla. Si fermò sulla bilancia a pensare. Scese, prese il telefono e comunicò che il musical avrebbe dovuto fare a meno di lui. Tanto non aveva nemmeno firmato un contratto.
Finì così... La mia storia di cantante.
 
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