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Cucina calabrese

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MaryFlowers

Fiorin Florello
Zuppa di Ceci del Marchesato e Peperoni salati con Patate silane fritti .....accompagnateli con un buon bicchiere di Rosso Melissa DOC e concludete il pasto con un pezzo di pecorino locale....i primi freddi vanno affrontati bene.
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MaryFlowers

Fiorin Florello
Trovato meglio ricetta del torrone gelato
Ingredienti
• 1 kg di zucchero fondente (fondant);
• 500 grammi di mandorle sgusciate e pelate;
• 300 grammi di frutta candita;
• 300 grammi di cacao;
• 200 grammi di cioccolato fondente;
• succo di 2 limoni;
• essenza di limone;
• coloranti naturali rosa o verde a piacere.
Procedimento
• anzitutto procedere ad estrarre il succo da 2 limoni;
• quindi lavorare a freddo lo zucchero fondente con il succo ottenuto dai limoni, fino ad ottenere una pasta piuttosto spessa, che sia perfettamente omogenea e priva di grumi;
• procedere quindi a dividere la pasta in tre parti, da prepararsi in modo diverso: una prima pasta è da lasciare bianca ed aromatizzata solo con alcune gocce di essenza al limone;
• una seconda pasta andrà colorata a piacere con del colorante naturale nei torni rosa o verde;
• la terza pasta andrà lavorata invece con una spatola, incorporandovi il cacao;
• procedere quindi a dividere in 3 porzioni sia le mandorle che la frutta candita, quindi andare ad incorporare ogni porzione, alle tre parti di zucchero precedentemente lavorato;
• a questo punto, foderare una teglia o pirofila con la carta oleata e procedere a disporvi a strati, uno sull’altro, le tre parti di zucchero, quindi coprire per bene ed poggiarvi sopra un peso, affinché eserciti una pressione uniforme su tutto l’impasto;
• non resta che lasciar riposare per 3 giorni l’impasto, fino ad ottenere un blocco unico;
• trascorsi i giorni, far sciogliere a bagnomaria, lentamente, il cioccolato fondente sul fuoco e quindi, farlo colare dolcemente sul torrone, in modo da ricoprirlo per bene, interamente;
• aspettare quindi che il cioccolato si indurisca e servire tagliato a pezzetti!
A dirla tutta, a dispetto del suo nome, non è neanche un gelato, ebbene si, perché questo torrone gelato è molto morbido, realizzato sapientemente grazie ad un impasto di essenze aromatizzate di agrumi diversi, zucchero fondente di vari colori, candidi e mandorle,
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MaryFlowers

Fiorin Florello
Zucca stufata con cipolla di Tropea e due patate silane. Nella pentola del risotto ho cotto un po' di guanciale nostrano. Poi il riso con parte della zucca frullata a crema fino alla cottura. Aggiunto un magnifico parmigiano 30 mesi e mantecato.
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MaryFlowers

Fiorin Florello
CRUSTOLI.
ingredienti:
1kg di farina di grano duro
1kg di farina 00
500 gr. di zucchero
la scorza e il succo di tre arance
1 bicchierino di anice
250 gr. di olio
200 gr. di vino rosso
200 gr. di acqua
una bustina di cannella in polvere
una bustina di chiodi di garofano macinati
3 bustine di lievito
un pizzico di sale
olio per friggere
miele e vino cotto
PREPARAZIONE:
Inanzitutto per prima cosa mettiamo tutti gli ingredienti insieme che sopra vi ho elencato e creiamo un bell'impasto, se quest'ultimo dovesse risultare troppo secco aggiungiamo un po' di vino o olio. Quandoo l'impasto e venuto a dovere omogeneo e non piu' secco, formiamo dei rotolini della larghezza di un dito e di una lunghezza di un metro circa, tagliamo dei piccoli cilindretti di circa 5 centimetri e con una forchetta facendo un po' di pressione sul cilindretto creato, facciamolo ruotare verso di noi, dandogli la sua forma. Dimenticavo, per fare tutto cio' usiamo una bella spianatoia di legno, per poterci lavorare, quindi facciamo riposare i nostri cilindretti creati con l'impasto, e facciamoli friggere in abbondante olio caldo. Una volta scolati li passiamo nel miele caldo insieme al vino cotto. Per quest'ultima fase occorre circa 1 kg di miele, che andiamo a versare in un pentolino insieme al vino cotto, che facciamo scaldare con un bicchiere d'acqua, griamo il tutto con un mestolo di legno per far aderire tutta la glassatura, immergendo anche i crustoli (cilindretti fritti nell'olio) ancora caldi. Ed ecco che la nostra ricetta dei Crustoli Calabresi e' pronta, provateli sono davvero una delizia ed e' una ricetta molto particolare.
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MaryFlowers

Fiorin Florello
Qui da noi :)
Olive schiacciate Rossanesi
Olive verdi.finocchio selvatico. peperoncini piccanti. aglio.carote.prezemollo .sale.olio d'oliva.
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MaryFlowers

Fiorin Florello
Ideali per un antipasto: GNOCCHI FRITTI che nel Catanzarese vengono chiamati MULINELLI/ MULINEDDI/ MURINEDDI/MURINDJII ecc. ..... SALATI ! (niente a che fare con i turdilli-crustuli DOLCI !!!) Questi Mulinelli , infatti, sono ideali da servire come accompagnamento di salumi calabresi....ma anche come semplice stuzzichino! C'è chi li fa con vino rosso e chi con vino bianco.Vi piacciono ? Voi usate preparare questo fritto SALATO a casa vostra ? E se sì.......come li chiamate ?

Preparazione: 450 gr di farina di semola, 500 gr di farina 00, 200 ml di vino bianco, 200ml di olio evo, 200 ml di acqua, sale a piacere. Olio per friggere (meglio se evo).
impastare tutti gli ingredienti. l'impasto deve essere friabile e molliccio. filare e ricavare dei cordoncini dello spessore di circa mezzo cm. tagliare i cordoncini a pezzetti di circa 1 cm, passare sul setaccio di vimini o l'attrezzino per gli gnocchi. friggere in olio caldo fino alla doratura. Se vi sembrano insipidi si possono salare ulteriormente appena fritti.
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MaryFlowers

Fiorin Florello
Ci sono diverse famiglie che cominciano a fare le salsicce di maiale,fatto in padella o arrostiti si possono gustare subito altri li appendono ad essiccare
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MaryFlowers

Fiorin Florello
La vigilia di Santa Lucia

Come accade anche in altre parti d’Italia, in Calabria la vigilia del 13 dicembre è caratterizzata da una cena che si svolge senza l’uso di cibi particolarmente ricchi. In particolare possiamo ricordare che a Corigliano il pasto serale consiste essenzialmente nell’utilizzo del vino nuovo e delle cosiddette “tridici cosi”, ossia tredici varietà di frutta, fra le quali si è soliti mangiare lupini, corbezzoli e mirtilli. Nel giorno di Santa Lucia specialmente in passato i Calabresi preferivano non occuparsi di alcuna attività lavorativa, in modo che la Santa li preservasse da malattie che avrebbero potuto colpire i loro occhi.
I contadini impegnati nella raccolta delle olive a mezzogiorno facevano una pausa e mangiavano cibi consistenti soprattutto in vari generi di frutta. Da ricordare anche fra le tradizioni calabresi legate a Santa Lucia quella della “missa pezziennu”, che veniva messa in atto nell’Ottocento a Torano. Si era soliti in sostanza girare per le case e chiedere una questua che serviva a far celebrare una messa in onore della Santa.
A Casabona e in altri paesi del Crotonese, l’undici dicembre ogni mamma mandava i bimbi a casa dei proprietari di grano, chiedendo loro una “iunta” di grano tenero per fare il grano di S. Lucia. E, così, con la scusa di S.Lucia, le famiglie più povere riuscivano a mettere da parte persino dodici chili di grano che poi utilizzavano per fare il pane. Stessa storia avveniva a casa dei produttori di vino, perchè occorreva il vinocotto. Il grano veniva messo a mollo il giorno prima, veniva cucinato nella pignata e, una volta cotto, si aggiungeva il vino cotto.
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MaryFlowers

Fiorin Florello
Mignon di Sammartini ...idea regalo
Sammartini.
Ingredienti pasta frolla per il ripieno:noci,nocciole,fichi,mandorle,uvetta.canditi,brocca di garofano.cannella,miele,cioccolato fondente,vin cotto.
mettere tutti questi ingredienti in una pentola e farli andare i.
Spezzettte ..o tritate gli ingredienti.....
Mettere tutti questi ingredienti in una pentola bassa e farli andare finchè non legano...usare questa farcia per il ripieno ..dopo fare le forme che si desiderano e metterli in forno a 180° per 20 minuti....
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MaryFlowers

Fiorin Florello
Trippa e Patate.
comprato la Trippa ed il Foiolo (Cièntupèzze) già pulita dal macellaio.
L'ho ri-lavata a casa e scottata per mezz'oretta e poi ho buttato l'acqua,e l'ho risciacquata bene bene e scolata.
Ho preparato un soffritto sedano, cipolla e carote, in olio evo. Dopo un po' ho aggiunto la trippa ed il foiolo tagliati a pezzi.
Ho aggiunto della passata di pomodori che ho fatto io, molto concentrata e coperto con acqua bollente. Ho aggiunto due scorzette di parmigiano ben pulite e grattate col coltello, un peperoncino piccante, aggiustato di sale e fatto cuocere il tutto per 2 ore, controllando l'acqua. Aggiunto altra al bisogno.
Poi ho aggiunto le patate a spicchi e fatto cuocere un'altra ora.
Fine cottura ho aggiunto del prezzemolo tritato.
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MaryFlowers

Fiorin Florello
Biscotti di pasta frolla alla cannella e miele millefiori ... ⭐‍‍❄️☃️
Ricetta
Biscotti di frolla alla cannella e miele millefiori
Burro freddo 125 g
Farina 00 250 g
Zucchero 100 g io ne ho messo 85gr
Uova (circa 1 piccolo) 50 g
Cannella in polvere raso 1 cucchiaino
Miele millefiori 15 g
Un po' di lievito per dolci
Sale fino 1 pizzico

Per preparare la pasta frolla alla cannella disponete la farina a fontana, aggiungete l’uovo e sbattetelo leggermente con una forchetta, aggiungete poi lo zucchero, il lievito, la cannella e il burro morbido a pezzetti. Potete ridurre o aumentare la dose.
Impastate tutti gli ingredienti fino ad ottenere un panetto sodo e compatto. Avvolgetelo in un foglio di pellicola e lasciatelo riposare in frigorifero per una mezz’ora almeno. Riprendete il panetto di pasta frolla alla cannella e stendetelo su un piano leggermente infarinato.
Utilizzare le formine in acciaio, il colore bruno è dato dalla presenza della cannella e del miele
Cottura in forno preriscaldato ventilato a 180° per 10 minuti max 15 minuti
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MaryFlowers

Fiorin Florello
Scirubbetta, il gelato più antico del mondo

Il nome scirubbetta deriva dall’arabo sharbat, da cui derivano anche le parole italiane sciroppo e sorbetto, che significa bevanda e nei paesi orientali si riferisce ad una bevanda dolce servita molto fredda, liquida oppure densa, da sorbire con un cucchiaino.
Esistono tracce storiche di preparazioni simili in tutti i paesi in cui avvenivano precipitazioni nevose, in cui la neve veniva raccolta da operai specializzati e conservata a blocchi in luoghi sotterranei usando come coibentante paglia e legno. La neve poi veniva mangiata o usata per raffreddare i cibi, una sorta di frigorifero primordiale.
Le prime presenze di scirubbetta risalgono a 6000 anni fa e si ritrovano in Cina, dove si degustavano coppe di neve mista a miele e succhi di frutta. Di coppe adibite alla neve dolce ci sono tracce in Mesopotamia e in Persia, in antiche tombe egizie per arrivare all’antica Grecia, dove intorno al 500 a.C. diversi poeti parlano delle bevande a base di neve.
Nell’antica Roma poi il piacere del dolce freddo era assai diffuso. Plinio il Vecchio, oltre a fornire la prima ricetta di gelato a base di neve, miele e succhi di frutta, racconta che c’era una fiorente industria della neve, che si riforniva sul Terminillo ma anche sul Vesuvio e sull’Etna, e nelle città erano diffusi i chioschi dove vendevano bevande a base di neve e miele.
Si capisce quindi che la scirubbetta calabrese nasce da queste consuetudini e l’uso di condirla con miele di fichi o mosto cotto deriva dal fatto che nell’antichità la Calabria era il territorio a più alta produzione di fichi e di vino dell’epoca.
Da dire che allora come ora, nell’andare dei secoli, tutti consumavano la scirubbetta in inverno, quando era sufficiente raccogliere un po’ di neve dai tetti e aggiungere u vinu cuattu, ma anche succo d’arancia o caffè, ed era subito pronta, buonissima e utile anche contro i malanni di stagione.
D’estate invece, fino all’Ottocento, la scirubbetta era un cibo da ricchi, destinato a strati più elitari della società per via dei costi elevati.
Il pittore inglese Edward Lear infatti, nel suo famoso Journals of a landscape painter in Southern Calabria, il diario di viaggio corredato dei magnifici disegni della Calabria, spesso parla del «buon vino e neve scintillante», la deliziosa scirubbetta che gli veniva servita nelle case dei notabili dove
scirubbetta calabrese, ovvero la neve mescolata con miele di fichi o mosto cotto, è una bella consuetudine ancora molto viva in Calabria all’arrivo dei candidi fiocchi invernali. Una preparazione tanto semplice quanto antica, la cui origine si perde nella notte dei tempi ed è da considerare come il primo gelato della storia.
E’ sufficiente raccogliere della neve pulita, metterne un pochino in una coppa, versarci su un filo di mosto cotto o miele di fichi e gustarla: è una vera delizia.
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MaryFlowers

Fiorin Florello
Vito Teti
Era alla fine degli interminabili banchetti o anche delle mangiate improvvisate nelle cantine o nelle case che, ai tempi della mia infanzia e della mia giovinezza, qualcuno ad un certo punto diceva: «Adesso ci vorrebbe qualche “roba in coccio”». La “roba in coccio” – di solito noci, nocciole, arachidi, ceci, lupini – era un’allusione al senso di mangiare e bere come se fosse l’«ultima volta». Il valore alimentare, rituale, augurale, propiziatorio di semi, grani, bacche mi viene in mente proprio in questo periodo natalizio, quando in molti paesi della Calabria, il 13 dicembre, giorno di Santa Lucia, si prepara ancora la «cuccìa», un piatto a base di cereali e carni, la cui preparazione molto lenta ed elaborata richiede una cura di giorni. Per la festa di S. Francesco a Spezzano Sila o nei paesi vicino Cosenza, la preparazione della «cuccìa» è ancora quella descritta da Vincenzo Padula (grande studioso delle culture popolari dell’Ottocento, autore di poesie, drammi, descrizioni etnografiche nonché anticipatore della letteratura meridionalistica con le sue inchieste). Il grano si mette a mollo in abbondante acqua il venerdì, il sabato lo si fa cuocere per 5-6 ore a fuoco lento, solo con acqua. A parte, si fa bollire in acqua leggermente salata carne di capra e di maiale. Dopo la cottura del grano, si elimina l’acqua e la si sostituisce col brodo di carne nel quale i chicchi resteranno, sempre sul fuoco, per un’altra ora. Padula, che aveva tracciato la geografia della fame e delle pratiche alimentari dei contadini e dei braccianti della provincia cosentina, vedeva nella «cuccìa» un piatto eccezionale in un contesto di precarietà.
La «cuccìa», preparata in diverse circostanze festive in Calabria (periodo natalizio), Basilicata, Cilento e Sicilia con cereali (grano, granturco, farro, ecc.), ma anche ceci, fave, cicerchie bolliti a cui talvolta si aggiungono carni di animali minuti, è un piatto povero e insieme elaborato, con antecedenti nel mondo antico. Siamo in aree collinari e montane, dove la base dell’alimentazione è costituita da vegetali, erbe, legumi, mais, castagne, patate e dove la carne di ovini e suini compariva a tavola soltanto in occasioni eccezionali e festive.
Vincenzo Dorsa (La tradizione greco-latina negli usi e nelle credenze popolari della Calabria Citeriore, 1884) riconduce l’usanza di distribuire grano o granturco bollito in famiglia, ai parenti, agli amici e ai mendicanti nel giorno di S. Lucia all’offerta votiva di farro, fave o altre «civaje cotte» dei romani e dei greci in occasione delle Pianepsie ateniesi in onore d’Apollo, dio che portava a maturità i prodotti della terra. Il termine «cuccìa», secondo Dorsa, sarebbe rimasto dai greci bizantini presso i quali coucia corrispondeva alla voce classica cuamos, cioé fava.
Gerard Rohlfs, il grande studioso tedesco delle parlate e delle lingue della Calabria e del Sud attribuisce l’etimologia al greco volgare «tà koukkìa» (chicchi) e critica l’opinione di quanti traducono con «fave arrostite». Egli parla di una «specie di minestra di grano bollito, condita spesso con vino cotto che si mangia in occasione di alcune solennità religiose». Le feste dei pastori, la distribuzione dei prodotti del suolo (frumento) rinvia alle feste campestri e pastorali dei Latini, nelle quali i prodotti dei campi erano offerti agli dei e consumati nei sacri banchetti. Il culto di Santa Lucia avrebbe, sempre secondo Dorsa, un immediato riscontro nelle Faunalia, che si celebravano alle none di dicembre (approssimativamente il 13) in onore di Fauno, dio dei boschi e dei campi. Nel VII libro dell’Eneide, Fauno è indicato anche come una divinità oracolare, che rivelava il futuro in versi saturnî. Il contadino calabrese deduceva i pronostici delle stagioni a venire osservando l’andamento del tempo tra S. Lucia e Natale: dodici giorni che chiama calènnule(Calendae) o journi cuntati, giorni cantati (celebrati), credendo «che ciascuno di essi risponda in ordine progressivo a ciascuno dei mesi dell’anno che succede». Altra caratteristica della festa di S. Lucia è la distribuzione di fichi secchi ai poveri. Ad Altomonte fichi secchi, cereali e legumi d’ogni sorta, in numero di nove, compongono le «nove cose» di Santa Lucia da offrire ai bisognosi (anche le portate della vigilia di Natale erano nove, o, in altre zone, tredici o ventiquattro).
Da noi :)
A Rossano sono tredici, come il giorno della Santa. I calabresi, osservava Dorsa, invece di portare i cibi sulle tombe dei cari trapassati, li distribuiscono ai poveri. «Nel 2 novembre poi è generale l’uso di distribuire ai poveri, fichi secchi, fave ed altri legumi, che in Paola si chiamano le juraglie d’i muorti; ricordanza romana, giacché i Romani nei conviti funebri usavano specialmente le civaje, e fave nere gettavano ai Mani nelle Lemurie per placarli e liberarsi dai terrori dei fantasmi. A Cosenza si fanno regali di focacce ed insalate di lattuca e di altre erbe dette insalate dei morti.Anche questa è ricordanza dei banchetti funebri antichi, giacché la lattuca era adoperata dai Greci nelle cene dei morti e soleva offrirsi nelle esequie di Adone». Ricordare i morti ogni lunedì del mese (’u primu lune) riporta all’usanza dei Greci che imbandivano le loro “cene di Ecàte” per i poveri alle neomenie (ovvero il primo giorno del mese lunare) presso i trivî, luoghi liminali associati alla dea.
La «cuccìa», che ci ha portato lontano nel tempo, con un’eccezionale associazione e mescolanza di alimenti, riti, tradizione, devozioni, può condurci altrettanto lontano anche nei luoghi.
Molte testimonianze riportate da Vladimir Propp (Feste agrarie russe) segnalano che alla vigilia del Natale e dell’Epifania in Russia, Bielorussia e Ucraina, il piatto insostituibile del pranzo sia la «kut’ja», un semolino fatto di miglio ed orzo, o anche usando chicchi, di norma non frantumati, di frumento o di riso. Si tratta di elemento caratteristico dei riti funebri e di pranzi commemorativi, a volte servito anche in occasione di matrimoni, nascite, battesimi. Per quanto possa apparire sorprendente (ma non lo è, se si tiene conto di un comune sostrato agropastorale e culturale arcaico e di analoghe vicende di cristianizzazione) la «cuccìa» è un piatto ancora oggi presente in una vasta area che va dal Mediterraneo ai Balcani alla Russia. Il ciclo dei riti agrari russi, ricostruito e studiato da Propp, cominciava con la festa della vigilia di Natale e si protraeva fino al 6 gennaio, Battesimo di Cristo. Se si considera che la «kut’ja» (o la «cuccìa») è preparata con chicchi o «semi» (a cui si aggiungevano delle bacche: ciliegie selvatiche, uva passa), non è difficile avvicinarsi alla corretta interpretazione di questi riti. Il chicco ha la proprietà di conservare la vita a lungo, di riprodurla, di moltiplicarla. «Il noto circolo continuo seme-pianta-seme testimonia l’eternità della vita. Gli uomini, mangiando semi, divengono partecipi di questo processo. Al chicco o al seme corrisponde, secondo la mentalità contadina, l’uovo del mondo animale il quale ha la stessa sorprendente capacità di conservare, contenere la vita e di riprodurla».
Tutti i popoli hanno utilizzato le uova, segno di immortalità, per i riti funebri, come i cristiani per la Pasqua, celebrazione della Resurrezione del Cristo. Sempre in Russia si osservava nell’Ottocento un altro rito consistente nel dare alle fiamme grandi falò presso cui venivano chiamati i defunti per scaldarsi. Tra l’altro in questo periodo (che spesso si protraeva fino al Carnevale) gruppi di giovani andavano in giro ad eseguire canzoni dette «koliadj» e a fare questua presso gli amici chiedendo, con insistenza e toni quasi minacciosi, dei dolci commemorativi, delle frittelle lievitate dette «bliny». Gli slavi, al pari di altri popoli, pensavano che in quelle notti i defunti si alzassero per mangiare assieme ai vivi. Pensavano che gli antenati morti partecipassero alla mensa. Con la loro forma tonda, i dolci di quel periodo rappresenterebbero il sole e costituirebbero uno strumento magico per assicurarne il ritorno dopo l’inverno.
A questo punto, in questo affascinante salto di tempi e di spazi, possiamo tornare in Calabria, dove l’uso di accendere enormi cataste di legna attorno alle quali vegliare e banchettare fino a notte è un’usanza ancora presente in tanti paesi e, ovunque io vi abbia assistito (nel periodo che va da inizio dicembre all’Epifania e da Carnevale a Pasqua), era evidente una forma di celebrazione dei defunti, che venivano attesi e accolti attorno al fuoco dove si consumava cibo in abbondanza. Negli stessi periodi dell’anno, in molte aree della regione, gli «strinari» andavano a cantare e suonare davanti alle case degli amici, augurando felicità e prosperità, ma anche chiedendo, prima garbatamente e poi in maniera insistita, salami, formaggio, frutta secca, vino, dolci. La particolare questua degli «strinari» è descritta in L. M. Lombardi Satriani, M. Meligrana, Il ponte di San Giacomo, 1982. Il loro atteggiamento è imperioso e scherzoso, perturbante: sono figure «vicarie» dei defunti, che nelle feste di passaggio, rinnovamento, inizio anno, tornano per mangiare insieme ai vivi.
 

MaryFlowers

Fiorin Florello
Non rivelano subito la loro identità, giocano a farsi riconoscere, quindi attaccano i loro canti e, se il padrone di casa tarda ad affacciarsi, lo incalzano con versi sfottenti, offensivi, manifestando sdegno per il provvisorio rifiuto. Smettono di suonare, tra risate e grida di saluto, vedendo la luce della casa accendersi e il proprietario uscire con i doni richiesti. Dentro grossi panieri, che uno di loro porta a questo scopo, raccolgono salami, uva, fichi secchi, noci, nocciole, che poi consumano nel corso della notte con molto vino. I cibi che avanzano vengono divisi tra i partecipanti alla fine della questua. La ricerca di cibo avviene in un clima gioioso e divertito; c’è tra gli «strinari» una vicinanza carnevalesca, e carnevalesca è l’elencazione esasperata e ripetuta del cibo richiesto. Il padrone di casa tarda volutamente l’uscita, quasi a esasperare l’attesa, rendendosi protagonista di un rito che rinnova miticamente il ritorno dei defunti. L’offerta è fatta con piacere, e anche con un senso di sollievo e di liberazione come se si fosse adempiuto a un obbligo importante, si fosse scongiurato un pericolo imprecisato. Qualche volta il padrone di casa, mentre le donne della famiglia restano dentro, tutt’al più affacciate sulla soglia, si aggrega alla comitiva; tuttavia quasi sempre torna in casa, al caldo, al sicuro. Gli «strinari» continuano il loro viaggio, le loro ombre scompaiono nel buio, le voci si sentono a distanza fino al ritorno della luce all’alba. In molti paesi della Calabria, il giorno di Capodanno, i bambini percorrono le vie dell’abitato, si fermano davanti alle porte delle case, bussano, attendono l’apertura della porta da parte del capofamiglia e chiedono la strenna (caramelle, cioccolate, soldi). Nel mio paese, S. Nicola da Crissa (VV), ancora alla fine degli anni Sessanta, noi bambini facevamo la richiesta dei regali con la seguente formula augurale: «Bonu Capudannu, facitimi la strina ca si nò mi dannu». Una formula che rivela esplicitamente il ruolo di figure vicarie dei defunti rivestito dai bambini.
La notte dell’Epifania anche l’ordine della natura può rovesciarsi: gli animali acquisivano il dono della parola e potevano parlare male dei padroni che li avevano maltrattati o non ben nutriti. Anche il «mangiare a scasciapancia» aveva un valore propiziatorio e augurale. Il sogno di un mondo alla rovescia riportava all’età dell’oro, ai miti di Giano e Saturno, al desiderio di cambiamento e di benessere. I banchetti, le mangiate, le abbuffate, in questi e in altri riti del mondo contadino, costituiscono rottura della quotidianità, passaggio da un regime alimentare normale a uno eccezionale. Le trasgressioni alimentari sono un viaggio dal regno dell’indigenza a quello dell’eccesso, dalla frugalità imposta all’abbondanza bramata, dai digiuni agli stravizi alimentari. Viaggio provvisorio, con immediato ritorno all’ordine di sempre, viaggio alimentare ciclico, previsto, all’interno di tempi stabiliti, come i rituali di cui è componente essenziale. Un rovesciamento-ribaltamento dell’ordine sociale abituale e l’affermazione di un diverso ordine naturale in cui uomini, animali, natura, cose erano sullo stesso piano e facevano parte di un’unica vicenda cosmica. L’abbondanza, eccezionalmente raggiunta, era esibita e teatralizzata per sottolineare il desiderio popolare di sfuggire alle privazioni abituali. I riti raccontavano e riflettevano anche profonde diseguaglianze sociali e tra i sessi esistenti in una società patriarcale e segnata dal bisogno.
Così, la «cuccìa», un piatto arcaico e del presente, “locale” e diffuso in una vasta area, continua a suggerire oltre a probabili scambi, mescolanze, passaggi, anche storie di precarietà e, insieme, di fantasia alimentare e di capacità di mescolare prodotti vegetali e animali come era possibile in occasione delle feste. Per queste pratiche alimentari e culturali, in cui centrale è il rapporto con la memoria e con i defunti, si potrebbe pensare a sopravvivenze e permanenze di un universo scomparso per sempre, di cui restano soltanto labili tracce e pallide memorie. Il viaggio dal presente al passato, dall’oggi al mondo antico, è sicuramente pieno d’insidie, di rischi, di trappole.
La tentazione di stabilire continuità e somiglianze tra riti tradizionali e riti antichi è forte, ma spesso si tratta di sovrapposizioni forzate fatte dallo studioso o dal ricercatore. I rituali che prendiamo in considerazione sono ormai mutilati, amputati, disgregati, quando sopravvivono sono «spuntati» di molti elementi che un tempo ne costituivano le parti più significative. La «cuccìa» rimane ancora oggi piatto identitario, simbolico, rituale degli abitanti di paesi come Spezzano Sila che si ritrovano in occasione della festa e della processione di S. Francesco di Paola. Il ritorno, la riscoperta, la reinvenzione di antiche ricette, la ripresa, in maniera nuova, di antichi prodotti e di piatti del passato, la ricerca di convivialità e la dimensione del «mangiare insieme» (in famiglia, con gli amici) si presentano come elementi di resistenza ai processi di erosione, di spopolamento, di disgregazione dei paesi dell’interno.
Dinnanzi a una sorta di «ritorno» a tradizioni, sempre reinventate e adattate al tempo presente, non si può avere un atteggiamento liquidatorio o, peggio, altalenante tra retorica e mitologia, indifferenza e rimozione. I resti, gli avanzi, le memorie del passato, che trovano un nuovo senso nel mondo presente, forse, alimentando nuove possibili pratiche alimentari, segnalano un bisogno di incontro tra persone rimaste, persone che tornano, persone che arrivano. Immaginano, magari, una forma di ritorno alla terra, alla produzione agricola, a una cucina che significa anche festa, convivialità, bisogno di mangiare assieme. Forse queste ricette di un mondo sommerso, che a volte riaffiora in maniera imprevista, attestano l’ineliminabile bisogno di continuare a mangiare con i defunti, con gli altri, con quelli che sono andati via, e anche a dialogare con loro. Accogliere i defunti attorno ai falò o alla propria tavola nei giorni delle feste in cui la nostalgia sembra contrastare un’ideologia omologante che rifiuta il sacro e l’alterità può avere anche il senso di ricordarci che vivi e defunti, rimasti, emigrati e immigrati, partecipano di una stessa vicenda del mondo e del cosmo.
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